Joyce Carol Oates
Una famiglia Americana
Il Saggiatore
Recensione di Elisabetta Cabriolu.
La Oates è una narratrice straordinariamente potente: voce che narra, descrive, dettaglia, consentendo al lettore di perdersi fra i luoghi descritti, ma anche di ritrovarsi infinite volte nelle cose di cui racconta. I suoi personaggi appaiono imperfetti nella loro fragilità, ma anche estremamente umani e psicologicamente definiti.
Il protagonista di questa storia è sicuramente la Famiglia, che raccoglie in sé protettivamente i suoi componenti, ma all'occorrenza è capace di scacciarli come elementi profondamente estranei.
La famiglia Mulvaney è una tipica famiglia americana: Michael Mulvaney, il padre, è un bell'uomo, robusto, attraente; si è costruito da sé, con la forza delle proprie mani, nutrendosi di un forte desiderio di rivalsa ; Corinne, la madre, innamorata dell'antiquariato e incapace di vivere lontano dalla sua fattoria; infine, i tre figli: Mike, il maggiore, Patrick, il genio della biologia, Marianne, dolce e unica femmina, Judd, il più piccolo della nidiata, ma anche il più trascurato. In famiglia tutti hanno un nomignolo attraverso cui riconoscersi e identificarsi: Mulo, Ranger, Fossette, Pizzicotto, Germoglio per anni sono parte di un loro codice familiare. Ci sono segreti ed equilibri che li tengono uniti e apparentemente felici. Poi il punto di rottura, che crea una frattura insanabile, ammorbando e distruggendo la famiglia stessa nelle sue fondamenta. La violenza segna un prima e un dopo. Lo stupro di cui è vittima la giovane Marianne, in un ambiente rurale, negli anni settanta, in una comunità chiusa in cui tutti si conoscono, è negato perché inaccettabile, soprattutto se ad essere ritenuto responsabile è il figlio della gente che conta. Attorno ai Mulvaney, amati fino ad allora, ma invidiati per ciò che avevano duramente conquistato, si crea un vuoto che, lentamente, diventa un'accusa sussurrata, l'assurdo pensiero che in fondo "se la siano cercata" per il loro ritenersi superiori. Ciò che è accaduto si configura agli occhi dei più come "l'orgoglio che viene punito".
L'intera famiglia, smembrata nel suo essere, snaturata privata di quel senso di Giustizia in cui aveva sempre creduto, si perde con gli anni, affogando nel disagio di non riconoscere più la propria personale identità. In verità c'è in tutti noi una naturale convinzione che non ci possa accadere nulla di male, un pensiero consolatorio che ci spinge a credere che il male non possa capitare a noi, ma agli altri. Questo mantra, a suo modo salvifico, tiene lontane le nostre paure più recondite, salvandoci dal disequilibrio. Una volta persa questa stabilità emotiva i Mulvaney crollano come scacchi in una scacchiera: Mike, che non sopporta l'idea di non aver protetto abbastanza Marianne, cede all'alcol e piano piano perderà se stesso e le sue certezze, Corinne vede i figli andare via uno dopo l'altro e ciò per cui aveva lottato disgregarsi e infine i figli stessi sono annichiliti dal senso di colpa o dalla rabbia che cresce piano. Tutto sembra dissolto, di fronte al fallimento economico e familiare, alla consapevolezza che ognuno ha reagito a modo proprio alla sofferenza, ricercando la propria strada e facendo altri errori.
"Le famiglie sono così, a volte. Qualcosa va per il verso sbagliato e nessuno sa come rimediare e gli anni passano e... nessuno sa come rimediare ".
Una famiglia è questo e molto altro.
Una storia molto forte in cui è facile sentirsi smarriti, soprattutto se non si ha il coraggio di accettare il fatto che le debolezze umane spingono inevitabilmente verso luoghi di non ritorno. Ho amato moltissimo il modo di raccontare di questa scrittrice, perché non lascia nulla al caso e indaga con spietata consapevolezza ciò che si nasconde all'interno dei suoi personaggi. Ma ho amato soprattutto la forza di alcuni di loro che non soccombono di fronte agli eventi: la dolce Marianne, allontanata dal protetto e sicuro nucleo familiare, dovrà ricostruire la sua identità che non ritrova più nei bei capelli biondi o nei vestiti da cheerleader del liceo, ma nella forza di saper perdonare e aiutare gli altri; così Patrick che, avviato ad una brillante carriera universitaria, ad un certo punto deve fermare la sua vita, guardarsi indietro, provando a trovare giustizia senza vendetta; e Mike che, diventato ormai un uomo, in suo padre, alcolizzato e perso, riconoscerà solo la vittima di qualcosa che non è stato in grado di domare. L'epilogo rasserenante lascia aperta la porta al perdono, perchè in fondo, l'amore che si è coltivato da piccoli in quella cellula protettiva e, a volte, soffocante, che è la Famiglia, non si disperde mai davvero.
Joyce Carol Oates, scrittrice statunitense (n. Lockport 1938). Nei numerosi interventi critici e nei saggi, O. sviluppa, sperimentandola peraltro nelle opere creative, una sua concezione complessa dell'arte che, partendo da un'accentuazione «morale», riequilibra poi con l'affermazione di segno contrario dell'autonomia dell'arte. Argomento dei romanzi di O. − spesso inficiati da fragile struttura e da eccessivo accumulo di situazioni limite − è la presa di coscienza di sé da parte di adolescenti, giovani, persone mature, in un mondo in preda alla violenza più bieca e più impersonale. Per il romanzo Them (1969, trad. it., 1973) ha ottenuto il National Book Award for Fiction nel 1970, e altri riconoscimenti ha ricevuto per i suoi racconti e i suoi atti unici. Le sue opere sono tradotte in 20 lingue. (Fonte Treccani.it)
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