Tullio Avoledo


L’ANNO DEI DODICI INVERNI


Marsilio, 2023






Recensione di Lorenzo Garzarelli e Rosetta Menabuoi. 





Si parla di fantascienza, sappiatelo subito. 

Come noi sappiamo che l’immaginario collettivo italiano considera il genere fantascientifico una sorta di B-Movie svilito a una parata stanca di mutanti, tentacoli e astronavi che assaltano il nostro pianeta perfetto per fagocitarlo in una galassia lontana, squarciata da lampi accecanti e vulcani che vomitano lava su lande desolate, su rocce appuntite come gli artigli di un venusiano. 

Omini grigi e bulbosi. 

(Ir)Realtà aliene. 

Eroi che sfoderano spade laser nella solitudine di un satellite cuneiforme. 

Scordatevene, per piacere. 

Respirate. 

Reset completo, un colpo di cimosa sulla comoda lavagna del già detto, del già visto. 

Sposate una diversa prospettiva per una volta, quella giusta. 

Pensate alla fantascienza non come un fine, ma un mezzo narrativo: usare l’immaginario per dare forme vivide e immaginifiche all’immaginato, lanciare un messaggio potente e attuale, capace di infrangere il muro del suono e delle macchine del tempo. 

Chiamate l’esperimento “L’anno dei dodici inverni”, convincetevi che Marsilio lo abbia ripubblicato nel settembre 2023 dopo una prima edizione Einaudi del 2009; Dio abbia in gloria e liberi quei bravi cristiani. 

Concentratevi e immaginate la scena dell’incipit avvolta in una nebbia azzurrognola, magari del colore del nontiscordardimé. 

Se presterete attenzione, ci vedrete attraverso un uomo, un vecchio che si fa chiamare Emanuele Libonati, in una sera di gennaio del 1982, davanti a un cancello rugginoso che si perita a spingere. Ha uno spigato sporco, scarpe inadatte alla stagione e una poesia datata nascosta nel taschino. I suoi passi affondano nella neve alta, la mano artritica impugna il pomello a forma di melograno del portone di una villa imprigionata dall’edera, lo sbatte inquieto sul legno scrostato e percepisce i passi del padrone di casa che accorre ad aprirgli. Il proprietario si chiama Emilio Grandi e l’uomo che si fa chiamare Libonati lo conosce. O crede di conoscerlo. O forse lo conoscerà in un futuro non troppo prossimo. Ora, ieri, mai: vai a capire. Emanuele, quello che si fa chiamare Emanuele, si svende a signor e signora Grandi come un inviato del Gazzettino locale con un compito abbastanza insolito: dice di voler scrivere un romanzo sui bambini nati nel giorno di Natale del 1981 nella periferia del triestino, proprio come loro figlia Chiara. Per questo, il reporter convince Emilio e Esther, i coniugi Grandi, a concedergli un’intervista all’anno per parlare della piccola, a incontrarlo una volta ogni dodici mesi, sempre in inverno, sempre in gennaio, per fare il punto della situazione e condividere i progressi della bambina. 

Da qui, da quel 7 gennaio 1982, Avoledo impugna il timone; e lo fa con penna ispirata e florida, di un signore che ha sollevato un caso letterario con la sua opera prima (“L’elenco telefonico di Atlantide”) e vinto il Premio Scerbanenco 2020 (“Nero come la notte”) rimanendo nell’ombra del suo amato Friuli Venezia Giulia senza proferir verbo o lanciare proclami al deserto: soltanto un dignitoso, religioso silenzio ammantato dalla qualità della sua opera, con quello stile lirico e avvolgente che dai classici prende in prestito ma ai classici nulla ha da invidiare. 

Si esprime a parole scritte, Tullio Avoledo da Valvasone. 

E molto bene. 

Così, in mano a questo aviatore d’altissima quota, L’anno dei dodici inverni si innalza a viaggio allegorico che si dipana in molteplici realtà, dimensioni, universi paralleli, tra eventi storici realmente accaduti e civiltà sull’orlo del tracollo ammaliate da inganni secolari e nuovi idoli. Lancia un messaggio chiaro e forte, quello di un amore spalmato tra le pieghe e le piaghe del tempo per onorare il quale vale la pena correre il massimo rischio, persino attentare al destino del mondo intero. 

In questo contesto, la storia si articola in un serrato susseguirsi di flashback e flashforward, che Avoledo centellina con maestria incastrando al centimetro una fitta rete di sotto trame e mantenendo viva l’attenzione del lettore tramite un groviglio di interrogativi disseminato tra capoversi e paragrafi, che si scioglierà soltanto nel finale così sorprendente, così ardentemente vivo. Perché all’uomo che si fa chiamare Libonati preme tanto la sorte della famiglia Grandi? Cos’è che sembra masticare la coscienza di quel vecchio misterioso in grado di prevedere l’esito dei campionati del mondo di calcio e che ascolta della musica non ancora incisa? Che ruolo rivestono uno scrittore eccentrico e dai gusti sessuali promiscui, un estimatore della poetica di Kavafis e un predicatore postmoderno in quest’epopea di anime che si rincorrono tra le colline di provincia, la costiera tirrenica e una Londra annientata dalle brame delle super potenze capitalistiche? 

A voler semplificare, la risposta sta “nel cuore, che contiene ogni cosa”, come diceva un poeta. “Complicata come l’amore, semplice come la vita. Ma si potrebbe dire anche il contrario: semplice come l’amore, complicata come la vita”. 

Avoledo tesse l’intreccio ricamandolo con una prosa colta, raffinata, misurata e mai criptica o pedante, usando il graffio, la profondità, il ritmo, l’impatto e la nostalgica lungimiranza di una distopia (o ucronia?) che incarna le scelte e i compromessi con cui l’essere umano è costretto a fronteggiarsi in una società oramai alla deriva; nessuna mostruosa architettura cyberpunk dagli algortimi incomprensibili, nessuna navicella fiammante a sfidare il cielo in questo romanzo poliedrico e visionario: solamente il ritratto di un’umanità sfaccettata e sofferente, dalle tinte opache simili a quelle del pastello di Music che giganteggia nel salone di Villa Grandi. 

Amore, rimorsi, rimpianti, corsi e ricorsi storici, vita e morte raccontati con la fantascienza. 

Di questo si tratta. 

D’altronde è il messaggio quello che conta, non lo strumento. 

E chissà se un giorno anche per noi avrà il colore e il buon profumo del nontiscordardimé.







Tullio Avoledo, scrittore italiano (n. Valvasone, Pordenone, 1957). Laureato in giurisprudenza, ha lavorato come consulente alla formazione per una ditta produttrice di personal computer e poi come copywriter per un’agenzia di pubblicità, contemporaneamente scriveva per un giornale locale e traduceva libri dall’inglese, prima di essere assunto in una banca, dove tuttora lavora nell’ufficio legale. Ha esordito nel 2003 con il romanzo L'elenco telefonico di Atlantide, che ha ottenuto un soddisfacente successo di critica e di pubblico. Tra gli altri romanzi si ricordano: Mare di Bering (2003), Lo stato dell’unione (2005), Tre sono le cose misteriose (2005, Premio Super Grinzane Cavour 2006 e finalista, nello stesso anno, al Premio Stresa), La ragazza di Vajont (2008), L'anno dei dodici inverni (2009, finalista al Premio Stresa), Le radici del cielo (2013), Chiedi alla luce (2016), Nero come la notte (2020) e Come navi nella notte (2021).

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