Anthony Burgess 

Arancia Meccanica

Einaudi



Stavolta è un sì. Libro che vale il film.

Arancia Meccanica di Anthony Burgess è un gran libro. E non è un caso che Kubrick (e prima di lui Warhol) lo abbiano considerato degno di una trasposizione. 

Il film di Kubrick è sufficientemente fedele e a tal punto famoso da rendere superfluo soffermarsi sulla trama. 

Sperimentalismo linguistico, libero arbitrio, etica e politica, trasgressione e affermazione del sé, assistenza e rieducazione morale della gioventù. 

È un testo che esalta la violenza? No. È un testo di denuncia sociale? Anche. Che cazzo metteva Burgess nel latte? Non lo so. Vale la pena leggerlo? Porca miseria! 

È ancora attuale? Purtroppo è ancora una volta un sì, anche se è uno di quei libri che necessiterebbe di un bugiardino con relative indicazioni e controindicazioni e un bel virgolettato in copertina con su scritto: "non adatto agli imbecilli".

Curiosità: il titolo è lo stesso dello pseudobiblion citato nel romanzo e sarebbe ispirato a un'espressione idiomatica del linguaggio gergale dell'east end londinese:

"as queer as a clockwork orange" (strano come un'arancia a orologeria).

Nota sullo slang dei soma: il linguaggio gergale ha un effetto straniante e funzionalmente disumanizzante. 

Burgess confeziona la sua lingua artificiale col fine di tracciare un profondo solco generazionale e definire coloro che vi ricorrono, in special modo il protagonista e voce narrante della storia: Alex, un quindicenne disadattato mosso alla brutalità estrema e alla perversione da un istinto ferino e primordiale e dal rifiuto di ogni forma di convenzione sociale, a cominciare proprio dal linguaggio.

Il nasdat di Burgess non è la neolingua orwelliana e nemmeno il linguaggio metasemantico inventato da Maraini (quello de Il Lonfo). Parole abbreviate, composte, modificate o prese in prestito da altre lingue sono attentamente contestualizzate in maniera da renderne intuitiva la comprensione (pur aggiungendo complessità e forza espressiva al testo, anche nell'edizione italiana, certo, grazie al talento della capace traduttrice Floriana Bossi). Andando ora al libro, invece, e al suo protagonista, va detto che, mentre i suoi compari soma fanno ciò che fanno in maniera meccanica e solo vagamente consapevole, per Alex, l'ultraviolenza è una precisa determinazione, un modo per affermare se stesso, in un mondo (familiare e extrafamiliare) che, fino a un certo punto almeno, insiste nell'ignorarlo. Il tema del romanzo? Il libero arbitrio. Il male in Alex non è innato, bensì, come già detto, frutto di una scelta pienamente cosciente. 

E questa evidenza, più volte mostrata, induce nel lettore delle istanze. 

È giusto o no mettere in discussione la possibilità di scegliere? Imporre il bene? E quali meriti ha l'uomo che non sceglie il bene ma viene indotto a non fare del male? 

L'autore ha una sua idea sull'argomento e la affida alla voce del cappellano del carcere in cui è detenuto Alex, il quale, nella conversazione che intercorre tra i due circa la cura Ludovico, dice: "Quando un uomo non può scegliere smette di essere un uomo". E più avanti si chiede: "Dio vuole il bene o la scelta del bene? E un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene?" Eh, lo so, vi ho capito ma, per cortesia, soprassediamo. 

Il racconto ha un ritmo forsennato, indiavolato, si ha, nel leggerlo, come la sensazione di correre lungo un declivio, un flusso di coscienza ininterrotto che trascina il lettore in un vortice di violenza che è tutto un cinebrivido. La violenza nell'universo distopico di Arancia Meccanica è ovunque, persino in ciò che tende al bene c'è violenza. Sfuggirne sembra impossibile o forse lo è, tutto dipende dal finale. In che senso? Nel senso che ne esistono due. 

Qui però il consiglio è di approfondire dacché la questione è bella complessa e le ricerche in rete non sempre aiutano ché lo stesso Burgess ha contributo a ingarbugliare la faccenda dichiarando cose diverse in momenti diversi della sua vita. 

Per capirci: il romanzo originale consta di ventuno capitoli. Burgess stesso, però, autorizzò il suo editore americano a tagliare il capitolo finale che trovava potesse non incontrare il favore del pubblico statunitense. Kubrick, ovviamente, lavorò alla trasposizione basandosi sulla versione americana che si concludeva con il ventesimo capitolo, il penultimo in pratica.

E questo cambia tutto o quasi perché, nelle ultime battute del libro, Burgess, a differenza di quanto fatto da Kubrik nel film, tenta di riabilitare il suo personaggio, mostrando l'uomo senza legge (a-lex), finalmente redento (o quasi insomma). Meglio il finale di Kubrick? Dite? Sì, lo penso pure io, anche se ho come la sensazione che quel vecchio volpone anarchico di Stanley abbia fatto di tutto per far passare una semplice casualità per una felice intuizione ché se merito c'è stato quel merito più che a Kubrick andrebbe ascritto all'anonimo editore americano di Burgess, il primo a intuire il potenziale del finale anticipato. 

La risposta è nel bene? Lo è sempre? 

O è nel come? Boh! 'A verità? Ero partito bbuono ma mo me so perzo nu poco pur'io. Com'è e come non è se vi capita di occhiarne qualche copia in libreria (magari con il faccino di Malcom McDowell che vi scruta minaccioso dalla copertina) lasciatevi sedurre, senza star lì ad almanaccarci troppo su, e sgaraffate... ehm... compratela pure ca ne vale la pena. 

Possibilmente senza pestare a sangue i commessi. Poi via sul comodino e niente latte prima di andare a dormire! Ci siamo capiti. 

La traduzione è di Marco Rossari.

Buona lettura.


Recensione di Luigi Giampetraglia.




Anthony Burgess, scrittore inglese (Manchester 1917 - Londra 1993). È vissuto per qualche tempo in Malesia e nel Borneo, traendone ispirazione per The Malayan trilogy (1972; tradotto in Italia col titolo Malesia!, 1981), trittico narrativo del tramontante imperialismo britannico. Deve la sua popolarità ad A clockwork orange (1962; trad. it. 1969), romanzo abilmente contesto di gergo londinese (dal quale nel 1971 S. Kubrick trasse, con la collaborazione dell'autore, il film omonimo), epopea della disumanizzazione della civiltà contemporanea. B. è considerato da certa critica inglese il narratore più dotato della sua generazione. Tra le sue opere successive: Moses (1976, poesie), Abba Abba (1977), Christ the tiger (1978), Earthly powers (1980; trad. it. 1983), The kingdom of the wicked (1985), Any old iron (1989, trad. it. 1991), The devil's mode and other stories (1989), A dead man in Deptford (1993, trad. it. 1995). È stato autore assai fecondo, anche come critico e saggista (The novel today, 1963; The novel now, 1967; Ernest Hemingway and his world, 1978; Homage to Qwert Yuiop, 1986; A mouthful of air: language and languages, especially English, 1992), specie come studioso di Joyce, che insieme ad A. Huxley è il suo precipuo modello letterario (Here comes everybody; an introduction to James Joyce, 1963; A shorter Finnegans Wakes, 1966; An introduction to the language of James Joyce, 1972), di Shakespeare (Shakespeare, 1970; trad. it. 1981) e di D. H. Lawrence (Flame into being, 1985; trad. it. 1987). Ha pubblicato inoltre un curioso ritratto di Mozart (Mozart and the Wolf Gang, 1991; trad. it. La banda Amadeus, 1995) e i due volumi autobiografici Little Wilson and big God (1987) e You've had your time: being the second part of the confessions of Anthony Burgess(1990). (Fonte Treccani.it)


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