Cormac McCarthy


Suttree 


Einaudi



Inutile nascondersi dietro un dito, la storia di Buddy Suttree non è libro da consigliare a cuor leggero: scritto in un inglese di qualche secolo fa, mirabilmente ricalcato dall’ottima traduzione italiana, disconesso sul piano temporale, iperdescrittivo, spesso una mera galleria di quadri di Hopper, ritratti d’individui sopraffatti e pietrificati nella solitudine dell’attesa. Le prime dieci pagine sono in grado di far impallidire chi abbia letto Joyce e Faulkner fischiettando e mescolando il risotto sul fuoco. Un libro disturbante. Un libro disperato che tenta disperatamente di farsi odiare, ma non riuscirà a farsi odiare da tutti, neppure con la sua struttura caleidoscopica, col suo turbinio di frammenti sporchi e taglienti che continuano a ruotare senza trovare unità narrativa, con la sua trama che si disperde in mille rivoli, in mille direzioni, come folli ratti di campagna, trapiantati in città e spaventati dal rumore del vivere e dal silenzio del morire, perché la morte altro non è che quel che i vivi si portano dentro. È ruggine questo romanzo. Ruggine sotto le unghie delle dita che voltano pagine, ruggine negli occhi che le leggono e ruggine che, “chissàcome”, riesce a infilarsi anche tra i denti, narrando di chi ha pochi denti e poco da mettere sotto ai denti, ma ha qualche intruglio con cui turlupinare lo stomaco. Gente che non ha mai visto una licenza, nemmeno quella per vivere. Gente così misera che perfino la gramigna gira alla larga. 

Siamo negli anni cinquanta e la miseria è quella della grande depressione, siamo negli anni cinquanta è l’alcolismo è quello del proibizionismo. Solo la rassegnata disperazione sembra peggio di quella di vent’anni prima. Viene il sospetto che il paese più ricco del mondo viva da sempre, e sempre vivrà, con la grande depressione nascosta sotto il tappeto e che a qualche scrittore toccherà in sorte di afferrarlo per le frange e farci dare un’occhiata sotto. Lo ha fatto Edgar Lee Masters, lo ha fatto Steinbeck, lo ha fatto Cormac McCarthy, qualcuno lo starà facendo e qualcun altro lo farà domani. Qualcuno canterà le gesta di un altro Cornelius Suttree, l’epico protettore dei vinti, degli umiliati e offesi, degli Harrogate di questo mondo, folli ingenui individui cui non è concesso il lenimento della rassegnazione, esploratore di corti dei miracoli nei sotterranei di Knoxville, pescatore di anime perdute, di anime senza Dio per scelta, di anime cui basta la leggenda di un santo, di un santo pescatore di pesci gatto in un limaccioso Gange del Tennessee che riverbera suoni malinconici, suoni di “Memphis blues again”, ma tace quando il vecchio straccivendolo smette di disegnare cerchi per dire al pescatore: 

“Non sono un miscredente. Non far caso a quello che dicono. 

No. 

Ho sempre pensato che esiste un Dio. 

Già. 

È solo che non mi è mai piaciuto.” 


La traduzione è di Maurizia Balmelli. 


Recensione di Riccardo Gavioso









Cormac McCarthy, scrittore statunitense (n. Providence, Rhode Island, 1933). Iscrittosi alla Univ. of Tennessee (1953), riprese gli studi nel 1957 dopo aver prestato servizio quattro anni nell'aeronautica degli USA. Tra i suoi libri, ambientati spesso negli aridi e assolati paesaggi del Sud, si ricordano: The orchard keeper (1965; trad. it. 2002), Suttree (1979; trad. it. 2009); Blood meridian (1985; trad. it. 1996), che gli è valso diversi riconoscimenti. Con All the pretty horses (1992; trad. it. 1996) M. inaugurò la cosiddetta The border trilogy, che annoverava anche The crossing (1994; trad. it. 1995) e Cities of the plain (1998; trad. it. 1999). Recentemente è tornato al successo con i libri No country for old men (2005; trad. it. 2006), dal quale è stato tratto un film dai fratelli Coen, e The road (2006; trad. it 2007), storia di un viaggio apocalittico di un uomo e un bambino in un mondo ormai ridotto in cenere, che gli è valso il premio Pulitzer per la letteratura. Tra i vari riconoscimenti ricevuti, si ricordano il Guggenheim Fellowship (1969) e il MacArthur Fellowship (1981). (Fonte treccani.it)

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