Giorgia Valensin (A cura di) 


Liriche cinesi 


Einaudi


In contrasto con la frenesia dei nostri tempi, la lettura di “Liriche cinesi”, antologia dell’antica poesia cinese curata da Giorgia Valensin, sentivo mi costringeva a un ritmo più rilassato, più posato, rispetto a quello quotidiano: la poesia richiede naturalmente che il lettore le dedichi molta cura; ma son stati soprattutto i versi di uomini e donne vissuti in epoche tanto lontane nel tempo e nello spazio, perduti nell’osservazione di sé, della realtà circostante e impegnati a contemplarne le linee, i tratti, le sinuose e variegate fattezze, ad avermi catturato; questi versi pieni, in una parola, di umanità, tracciati dal pennello infuso di questa loro sensibilità, mi hanno fatto perdere la cognizione del tempo, mentre, risuonando col mio animo, mi perdevo io stesso a fantasticare, immaginando quei panorami e quei loro vissuti. 

Attraverso le molte poesie di questo volume, onorato dalla prefazione di Eugenio Montale, noi ripercorriamo più di 3000 anni di poesia del Celeste Impero. “Liriche cinesi” non ha però certo la pretesa di essere esaustivo, vuole piuttosto fornire un assaggio soddisfacente per il lettore di ciò che il cimentarsi nell’arte poetica, in Cina, ha potuto produrre in un vasto arco temporale, che va dal 1753 a. C. al 1278 d. C., ricordando, tuttavia, che queste, come scrive Montale, «non sono poesie nel senso più nostro. Qualcos’altro, dunque: più vasto e insieme più labile». 

Ma è di nuovo Montale che, con stile inimitabile, chiarisce meglio quanto si è cercato di dire più sopra: «Questa poesia non è un microcosmo che riveli e illumini perfettamente l’entità macrocosmica che le ha permesso di formarsi – la formicolante, travagliata, civile, ed estenuatissima vita, e vita millenaria, di un popolo sterminato, diversissimo dai nostri; è invece un insieme di gocce d’acqua che dovrebbero rivelarci un oceano e se ne stanno chiuse nelle loro fiale delicate e sottili; è un lampo di madreperla che illumina una tragedia troppo più che individuale per suggerirci parole di quaggiù. Attraverso secoli di guerre, di flagelli, di carestie e di orrori, questi pochi poeti, questi in realtà numerosissimi poeti che si contano per dinastie (e sono imperatori e ministri, generali che corrispondono in versi, mogli ripudiate e funzionari in esilio) si sono trasmessi il fior di giada dell’arte loro, l’hanno elaborata e perfezionata, adorna di sensi e supersensi, di parallelismi concettuali e di acuzie tecniche, hanno compiuto insomma prima di noi tutto il ciclo evolutivo e involutivo ai quali ci han reso familiari, in pochi secoli, le maggiori letterature dei nostri paesi». 

Quale che sia il senso più proprio loro, non può sfuggire il fatto che queste poesie, in fin dei conti, parlano di persone. Ed è forse questo che sbalordisce, per quanto banale sia l’affermazione e la riflessione che ne segue: nonostante così tanti secoli siano passati da chi ha poggiato il pennello su una carta pronta a imbeversi di inchiostro, accogliendo così quei segni profondi, si può avere comunque modo di riflettersi in essi, negli stati d’animo che hanno per sempre immortalato. E allora non stupisce che si parli d’amore, di solitudine, del tempo che passa, delle ingiustizie subite, di quanto «è inquieto il mio cuore» nel sapere di doversi separare da un amante, un amico o dal paese natìo, e che noi si sia in grado di ‘sentire’ tutto questo. 

E come in un interessante mosaico, venutosi a comporre in secoli di dedizione, ecco che ai versi pieni d’amore della poesia “La gente nasconde l’Amore”, scritta dall’imperatore Wu-ti dei Liang (464-549 d. C.), i cui ultimi due versi 

Non lo sapevi tu che la gente nasconde l’amore 

Come un fiore troppo prezioso per essere colto? 

ho voluto imparare a memoria per poterli serbare, per quanto perfetti e profondi io li abbia trovati, possono quindi fare da contrappunto poesie dal tema molto differente, come quelle piene dell’ingiustizia del mondo e degli orrori della guerra di Tu Fu (712-770 d. C.), di cui “Al campo” colpisce per la vividezza delle immagini e l’ironia finale: 

All’alba scesi nell’accampamento 

Passando dalla porta d’oriente. 

Al tramonto sostai ritto sul ponte. 

L’ultima luce del sole cadente 

Illuminava la bandiera grande; 

I cavalli nitrivano nel vento. 

Sulla sabbia infinita erano in file 

Ordinate lunghissime le tende, 

E in mezzo al cielo pendula la luna. 

Da ogni schiera si levano richiami 

Ordini brevi e cenni colle mani. 

Questa dura immutata disciplina 

Fa desolata e tacita la notte; 

Di tanto in tanto un triste suon di flauto, 

E son tristi i guerrieri e senza orgoglio. 

E chi sarà il supremo comandante 

Di quest’immensa armata? Un farfallone 

Aggraziato, leggero e volteggiante.


Chiudendo il libro, si prende davvero coscienza solo dopo, a distanza di tempo, che si sono vissuti in modo concentrato più di 3000 anni di un vasto «oceano» ricco di emozioni e storie di vita. L’ultima poesia – “La malinconia” –, scritta da Sin K’I-tsi (1140-1207 d. C.), sembra essere stata inserita a posta per salutare il lettore, quasi a volergli ricordare ciò che potrebbe assalirlo una volta chiuso il volume. 


Da giovane non conoscevo il gusto 

Della malinconia. 

Allora mi piaceva 

Di salire in soffitta – 

E salito in soffitta, 

Poi per comporre dei poemi nuovi 

Cercavo di sentirmi malinconico. 

Or la malinconia 

Io la conosco a fondo; 

Vorrei parlarne – ed esito, 

Vorrei parlarne – ed esito… 

Mi contento di dire 

«Oh, com’è bello questo fresco autunno!» 


Se prima di aprire questa antologia non conoscevamo «il gusto / della malinconia» che ci avrebbe potuto lasciare, ora, una volta terminatane la lettura, in noi, «questo fresco autunno», sentiamo potrà essere almeno mitigato dal sapere che sempre si avrà modo di riaprire queste “Liriche cinesi” in cerca di quel verso che ci manca e che, allora, ci avvinse. 


La traduttrice (dall’inglese) è Giorgia Valensin

Recensione di Matteo Celeste.








CHU'Ü YÜAN, uomo di stato e poeta cinese, nato verso il 350 a. C., nello stato di Ch'u, da famiglia reale. Consigliere del re Huai (328-299 a. C.), cadde in disgrazia per gl'intrighi dei cortigiani. Bandito nel 297, si ritirò a S. del Yang-tze sulla riva del fiume Mi-lo, e morì verso il 285. È uno dei più grandi poeti cinesi; creò un genere nuovo (fu) di lunghi poemi. È il primo poeta lirico, e canta i suoi dolori, i suoi rimpianti, la sua disperazione. Famoso è il poema Li sao (che si può tradurre liberamente: il dolore nell'esilio). Il suo suicidio nel fiume è forse una leggenda. 

Bibl.: Ssu-ma Ch'ien, Memorie storiche, cap. 84 con una biogr. di C. Y.; H. d'Hervey-Saint-Denis, Le Li sao, Parigi 1870 (vers. ital. di questa trad. francese, Milano 1880); J. Legge, in Asiat. Journ., Londra 1870; H. Maspero, La Chine antique, Parigi 1927, pp. 598-60, analisi critica delle biogr. e dell'opera di C. Y. (Fonte treccani.it)

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