Jørgen-Frantz Jacobsen 


Barbara


Dedalus Books 2013


Un po’ d’anni fa, nel corso di un viaggio alle remote e fredde isole Fær Øer, ultimo lembo di Danimarca perso in pieno Nord Atlantico poco a sud dell’Islanda, mi fu localmente regalata una copia di questo romanzo: unica produzione letteraria isolana di rilievo del ventesimo secolo, in versione inglese tradotto dal danese, e del quale non saprei dire se attualmente sia ancora reperibile la traduzione italiana (citata da Treccani). 

Il motivo del regalo era che questo testo è iconico di quel territorio al punto che il lettore riesce quasi magicamente come a respirarne l’aria salmastra, le nebbie, i profumi erbosi, il vento: non a caso infatti alcuni dei capitoli sono suggestivamente intitolati Rain, Coloured stones, Akvavit, In a garden, Wheater-fast, e credetemi, mantengono sempre quel che promettono: sarete davvero sotto la pioggia, tra i fumi dell’alcool, in balia del tempo che cambia all’improvviso etc. 

La storia è quella di Barbara, donna vitale anche se non più giovanissima, sposata e vedova due volte, Barbara che tutti gli uomini irrimediabilmente desiderano e della quale al tempo stesso diffidano; consci che la sua straripante, incontenibile gioia di vivere, dopo di averli strappati alle loro grigie brume puritane e borghesi, li catturerà e perderà per sempre. È già accaduto a diversi, a troppi, praticamente a tutti i radi forestieri che approdano; perché Barbara, si sa, è tanto facile di entusiasmi amorosi quanto incapace di vera fedeltà, e suoi baci, alla fine, sono velenosi per l’anima. 

Ed è proprio la stessa libertà di Barbara, il suo dominare cinicamente l’amore in quanto soltanto dall’amore posseduta e dominata, a trascinarla a sua volta alla stessa rovina: dopo una lunga serie di tradimenti e intrighi, se ne perderà ogni traccia nel procelloso oceano, dove la donna si avventura disperata a bordo di una scialuppa, al vano inseguimento del suo ultimo giovane amante, imbarcatosi di fretta e furia per fuggire da lei dopo averle fatto promesse di una vita nuova insieme a Copenaghen, via da quella desolazione, fame e miseria murati vivi dal mare. Promesse poi rimangiate nella tardiva consapevolezza che Barbara non cambia, perché Barbara è di tutti ma in realtà di nessuno: Barbara è del nulla liquido delle onde in cui trova la fine. 

Scritto negli anni Trenta del Novecento, ma in palese debito con le eroine flaubertiane e ottocentesche in genere, e con curiose assonanze con la storia di un’altra ingenua e ambigua seduttrice sedotta e abbandonata – la Graziella di Alphonse de Lamartine – che curiosamente vive su un’altra isola remota, anche se stavolta persa nel sole del Mediterraneo: Procida - questo romanzo è un tragico apologo morale che vuole riflettere sulle nefaste conseguenze della vanità degli uomini e sulla triste destinazione finale della cattiva strada dell’adulterio e della lussuria. Ma alla fine non riesce a non empatizzare e a non farci empatizzare e specchiare nella figura potente della sua sventurata protagonista, nelle sue dolci e licenziose ansie, nei suoi delicati desideri irraggiungibili, e viceversa nelle complicate e tortuose peripezie d’amour fou dei suoi sperduti e perduti amanti. 

E un altro effetto collaterale interessante potrebbe essere sicuramente quello di farvi... viaggiare: io che come sapete l’ho letto dopo di aver visitato le isole, mi sono ad esempio reso conto di aver percorso, anche se in direzione inversa, lo stesso ciottoloso scollinamento fra Tórshavn e Kirkjubøur che lo sfortunato Paul, il terzo marito di Barbara, affronta pazzo di gelosia in una notte buia e tempestosa. Io ovviamente l’ho fatto in una delle poche belle giornate, e gli unici rischi che ho dovuto affrontare sono stati la spettacolare esposizione agorafobica delle alte scogliere sull’’oceano e l’aggressiva ostilità dei gabbiani che proteggevano i loro nidi dal mio passaggio (minaccia tuttavia quest’ultima non da poco e per niente da sottovalutare, per il viandante che si avventura a quelle latitudini, dove gli uccelli marini sono tanti, sono grossi e possono facilmente diventare cattivi). Ma l’emozione è collegabile. 

O magari potreste anche soltanto guardare su Netflix, rilassati e comodi dal divano di casa vostra, il bel film dallo stesso titolo che ne è stato fedelmente tratto nel 1997, in danese sottotitolato in italiano, girato in loco e che dunque mostra bene parecchie delle selvagge bellezze paesaggistiche delle isole (ne ho riconosciute diverse, per esserci passato all’epoca) e annovera l’interpretazione avvolgente di un’attrice che ha saputo incarnare alla perfezione tutta la tormentata complessità della magnetica creatura letteraria di Jacobsen.

E allora, che sia sulla pagina, dal vivo in mare o sullo schermo di casa, buon viaggio a chi vorrà, sulle tracce di Barbara delle isole Fær Øer.

trad. inglese di W. Glyn Jones.


Recensione a cura di Carlo Crescitelli.





Jørgen-Frantz Jacobsen (1900-1938) è un giornalista e romanziere faroese, pioniere della letteratura locale in lingua danese (cui faranno seguito anche lavori di altri autori, stavolta in lingua feringia). È ricordato, oltre che per il romanzo Barbara – che all’uscita riscosse un certo successo anche internazionale – per il suo impegno politico indipendentista a favore delle isole e per una loro poetica storia scritta in forma di guida di viaggio. 






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