Semezdin Mehmedinović

Me’Med, la bandana rossa e il fiocco di neve

Bottega Errante Edizioni





Me’med ha un infarto, a 50 anni, negli USA, dove si è trasferito circa 20 anni prima, con moglie e figlio allo scoppio della guerra in Bosnia, nel 1992. Me’med conserva un fortissimo accento straniero, subito evidente ai medici che faticano a pronunciare il suo nome per intero, e straniero per lui resta un mondo che l’ha sì accolto, ma dal quale si sente sempre diviso con quella spanna di distanza emotiva che fa la differenza. Me’med fatica a ricordare il suo presente e il suo passato, l’infarto gli gioca il brutto tiro della memoria confusa che rende il mondo quotidiano un estraneo, ma di giorno in giorno riemergono certezze e sensazioni, compresa la sorpresa di una normalità scandita in ogni gesto, che all’improvviso subisce un’eccezione, un imprevisto, un inceppo. La morte compare, un giorno, davanti a lui, ma se ne va richiudendo la porta, e lasciandogli tempo e modo per calmarsi dallo spavento, e per riprendere il filo degli eventi, presenti e passati. Torna a casa, Me’med, assistito dalla moglie, e prende una singolare decisone.

Il figlio Harun, fotografo freelance, vuole documentare un suo viaggio dentro gli Stati centrali degli USA, una settimana in automobile, classicamente on the road, per vedere e guardare. I due decidono di fare il viaggio insieme, col solo accordo di rispetto reciproco e parche parole, perché basta poco per rinsaldare il sodalizio, per scambiarsi i ruoli di custodi l’uno dell’altro, come deve essere fra padre e figlio. La bandana rossa in origine era il fazzoletto, da portare al collo, a triangolo, in dotazione alla divisa dei giovani comunisti durante il governo di Tito, da indossare alle manifestazioni del regime, e da considerare come il primo segno della propria vocazione di combattente jugoslavo. Harun conserva il fazzoletto, e lo trasforma nella sua bandana, ne fa il suo segno distintivo traducendolo in un’altra dimensione, in un altro vissuto. In questa altalena di passato e presente, Me’med tiene una sorta di diario del viaggio, sotto forma di lettera al figlio. Si alternano paesaggi grandiosi, come il Monte Rushmore, e il ricordo della neve di Sarajevo, volti e persone tipiche del Midwest si specchiano nei volti di chi, nella vita di prima, era stato amico o si era rivelato dalla parte del male, come l’ex collega Radovan Karadžić che “trasformò il ristorante Kula in un campo di concentramento”. Il tutto in un contesto sociale che spesso, sentito il nome di Me’med, lo considera un russo! Me’med ricorda, alla fine, che al suo arrivo negli USA lui aveva 35 anni e suo figlio ne aveva 12, mentre ora lo stesso Harun ne ha 32, ed è quasi coetaneo di quel padre di vent’anni prima. Così termina la sua lettera, o meglio la sua confessione, o meglio ancora il suo lascito: “Il tempo si scioglie più velocemente del ghiaccio nel deserto. … La questione è: cosa ne farai della tua solitudine? Abbi cura di te, guida piano, mangia bene e leggi libri intelligenti. Chiudi l’uscio a chiave quando esci e porta un maglioncino con te, il tempo può cambiare in maniera repentina”.

Passato l’infarto, finito, il viaggio, consegnata la lunga lettera al figlio, Me’med deve affrontare un’altra prova: la moglie Sanja ha un ictus e lui l’assiste in ospedale, ogni giorno e per molte notti. Sanja ha buchi di memoria, riconosce il marito, ma le manca molto della sua vita, e Me’med l’aiuta a riprendersi il passato, partendo dalla ripetizione, giornaliera, quasi una giaculatoria, dei tempi e dei modi che hanno scandito la comparsa dell’ictus. In questa normalità spezzata da un fulmine, in questo sostegno reciproco, fatto di presenza paziente e costante come lo scorrere del calendario, in questo bisogno di riprendersi il senso del tempo e delle cose, Me’med e Sanja accomunano la loro esperienza con la malattia. Ma c’è di più, ed è un’aggiunta che commuove ad ogni riga: Me’med e Sanja si amano, non hanno mai smesso di provare l’uno per l’altro un sentimento profondissimo e indistruttibile. Quest’ultima parte del libro è una lunga, tenerissima, assoluta testimonianza d’amore per una donna che è molto più di una moglie, perché nel 1993, durante l’assedio di Sarajevo, “un omicida indirizzò la canna del kalashnikov verso il mio petto. E lei si mise tra il kalashnikov e me”. In una vecchia foto, Sanja indossa un abito bianco estivo, il fiocco di neve che dà il titolo al capitolo, un abito che interpreta la giovinezza di un viso, di un corpo, che ora, invece, non nasconde gli insulti del tempo. Eppure Me’med arriva a dire: “Ricordo TUTTI i suoi corpi. Nella notte tra sabato e domenica, siamo diventati vecchi. Come potrei anche solo immaginare un’altra donna invecchiare accanto a me?”. Lunga è la degenza di Sanja, e grande è il timore di perderla per sempre. Poi le cure mediche e il destino si riprendono la scena, Sanja lentamente ritrova il suo spirito caustico, il suo bisogno di vita, riallaccia molti dei fili interrotti grazie ai racconti che Me’med non smette di narrarle sulla vita a Sarajevo e negli USA, finchè arriva il momento di tornare a casa. Continua anche qui l’ostinato inseguimento dei ricordi e via via si infittiscono i commenti di Sanja, spesso stupiti dall’evidenza del tempo passato, dei volti cambiati, delle persone perse per strada e della propria esistenza ancora presente su questa terra. Me’med non smette di esserle vicino, cosciente, da vecchio, che ognuno muore giovane, ma forte del fatto che “La sventura ci ha ridotti all’essenziale. E nulla è rimasto di noi, tranne l’amore”.

Alla fine della lettura prevale la sorpresa per una prosa profonda e incisiva senza essere urlata, ci si sente stupiti per immagini, suoni, colori e odori di cui è fatta questa narrazione, che tuttavia sfugge ad una precisa collocazione di genere: non è solo un romanzo, non è solo un diario, non è solo un libro di viaggio, non è solo un passaggio generazionale. Sono i molti piani di lettura, fra loro indissolubilmente incastrati, a fare di Semezdin Mehmedinović un nostro simile, a rendercelo intimo, anche grazie ai numerosi richiami a film, canzoni, musica e costumi che ricorrono nei ricordi dei suoi coetanei un po’ dovunque. Un discorso a parte meriterebbe anche l’America di cui ci parla, lontana dalle metropoli, il cui silenzio si concilia con una filosofia di vita, ma che spesso appare richiusa in se stessa, incapace di accogliere e comprendere realmente chi, suo malgrado, è straniero, senza fare nulla per ridurre le distanze. Non per nulla, quel viaggio Me’med e Harun lo compiono tra territori e gruppi sociali che di lì a poco eleggeranno Trump con convinzione.

Oggi lo scrittore è tornato a vivere a Sarajevo, e la sua vita continua nel nostro continente, dove ripete il suo concetto di casa: “là dove sei in compagnia delle persone a te più care”





Semezdin Mehmedinović, nato nel 1960 a Kiseljak, è uno scrittore bosniaco e redattore di riviste. Dopo aver studiato biblioteconomia e letteratura comparata a Sarajevo, ha lavorato come redattore delle riviste "Lica" e "Valter", che sono servite come voce di opposizione al regime comunista al potere.

Autrice Lina Morselli.



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