Mattia Insolia


Cieli in fiamme


Mondadori



Recensione di Elisabetta Cabriolu. 


Autore giovane che non conoscevo, ma che ho avuto la fortuna di ascoltare in una sera d’estate, mentre presentava, da remoto (ahimè), questo suo nuovo romanzo. 

Come al solito mi sono lasciata colpire dal titolo che mi è sembrato particolarmente bello e strano. Mi sono subito chiesta cosa avesse spinto l’autore a sceglierlo, dal momento che invece nella copertina mi appariva l’immagine di un ragazzo/uomo con una mano in faccia e un’espressione tra l’assonnato e il disperato. 

Così sono andata alla ricerca di quel punto preciso che, spesso, ma non sempre, mi svela la genesi del titolo e l’essenza della storia e, quasi sul finire della lettura, l’ho finalmente trovato.


“Aprì gli occhi. Lui le si dimenava ancora addosso. Così lenta, si girò, portando lo sguardo altrove. E vide che il faro non lampeggiava più. Si voltò ancora un po', dando il profilo alla bestia che aveva sopra. Immerse gli occhi nella notte, socchiudendoli appena. E le sembrò che il cielo fosse vicinissimo. Era pieno di stelle. Puntini luminosi che la fissavano e le sussurravano che loro, tutti loro, erano lì per lei. Che l’avrebbero accolta, e protetta. E lei a quel cielo si lasciò andare, Lontana dal mondo che l’aveva sempre rifiutata, che le aveva riservato solo sofferenza, che non le aveva mai dato tregua, solcava il cielo sopra di lei. Lieve, Teresa galleggiava tra le stelle.” 


Si capisce subito, attraverso queste poche righe, che il libro parla di violenza, una violenza fisica che Teresa subisce prima da parte di una madre fortemente inaffettiva e profondamente bigotta ed infelice ed una violenza emotiva da parte di un padre che non è riuscito a suicidarsi per davvero e riveste di silenzi la propria vita familiare. 

L’amore per lei è un miraggio, l’idea a cui si aggrappa per sentirsi meno sola, meno grassa, meno brutta, meno sbagliata, un po’ come capita a tante ragazze. Ma anche in questo caso non ci sarà salvezza nè riparo o protezione, ma dolore che si aggiunge. 

Il racconto percorre due strade parallele, ma distanti circa un ventennio e l’io narrante è dapprima Teresa che ripercorre gli anni della sua adolescenza, poi diventa Niccolò, suo figlio, che si ritrova a fare un lungo viaggio con suo padre Riccardo che non conosce e non ama. 

Niccolò è un ragazzo di diciannove anni, uno di quei personaggi che io non ho amato troppo per il suo vivere sopra le righe, senza consapevolezza, con rabbia e violenza. Il suo linguaggio è uno slang giovanile, condito da “checcazzo, puttanaeva…”, con riferimenti ad uso di sostanze stupefacenti ed atteggiamenti razzisti e violenti verso i più deboli. 

Il viaggio in macchina verso sud, verso Camporotondo, che appare da subito come il luogo in cui tutti i tasselli mancanti della sua infanzia, troveranno la giusta collocazione, sarà il suo personale viaggio di formazione per ritrovare la strada, per riconoscere la sua identità e per rendersi conto che la madre, per cui sembra nutrire un odio viscerale, in realtà è sempre stata una vittima. 

Il rapporto con il padre, Riccardo, è inesistente, ma pian piano prende forma, assumendo i contorni di qualcosa che non potrà definirsi amore né perdono. Niccolò si scoprirà molto diverso quell’uomo che definisce “portatore di dolore nelle vite degli altri”, perché la cattiveria non è qualcosa che si eredita geneticamente, perché c’è un momento nella vita di ognuno in cui si può decidere chi essere. E Niccolò sceglie di non essere uguale all’uomo da cui è nato e per cui sente,però, un’infinità pietà. 

E infine la violenza, raccontata attraverso le parole di Riccardo: il suo punto di vista è quello di chi è perdutamente colpevole. Non chiede sconti, ma vorrebbe perdono. Sa che è stato un mostro e agli occhi degli altri resterà questo e nient’altro. C’è il dolore pesante e indicibile che lascia anche nel lettore un buco nero, perché l’espiazione, la redenzione arriva con un unico finale possibile. 


“A tenerlo ancorato al mondo non erano i corpi di chi era stato, non più. Ai fantasmi di sé stesso, chiedendo perdono al figlio, aveva detto addio. Ora era tutto quel che non avrebbe mai potuto essere, chi non avrebbe mai potuto abitare, indossare, ad aggrapparlo alla terra che si preparava a lasciare."


"Piangeva per quel che senza coscienza si era precluso lui stesso. Al mondo, però, di spazio per i mostri non ce n’era. E ormai questo lo sapeva.
Ma lui non era un mostro. Lo era stato, sì, ma quella persona…. non c’era più. Era morta.” 





Mattia Insolia è nato a Catania nel 1995. Si è laureato in Lettere alla Sapienza di Roma con una tesi sul movimento letterario dei Cannibali. Ha scritto alcuni racconti poi inclusi in raccolte antologiche. Collabora con “7”, il settimanale del “Corriere della Sera”, “Domani” e “L’Indiependente”. Il suo primo romanzo è Gli affamati, pubblicato nel 2020 da Ponte alle Grazie e tradotto in Germania.

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