Emanuela Carniti
Alda Merini, mia madre
Manni Editore
I personaggi pubblici, quando ci vengono mostrati nella loro esposizione mediatica, sembrano non possedere una vita privata, reale, calata nel quotidiano. Nell’immaginario collettivo essi rimangono sempre esseri speciali, privi della concretezza alla quale noi comuni mortali siamo destinati. È il caso anche di Alda Merini, certamente fra le più grandi figure della poesia del Novecento italiano, che ebbe la ventura, fra varie vicissitudini e sofferenze, di assurgere a personaggio al di là dell’umano, un’icona suo malgrado del disturbo psichico e della diversità. Ma pur avendo spesso incontrato e tradotto in versi il suo male di vivere, Alda Merini è stata anche e soprattutto donna, moglie e madre. Ed è proprio in questo ruolo che ci viene presentata in questo libro, filtrata attraverso lo sguardo di una delle figlie, Emanuela o Manuela, come la madre era solita chiamarla.
Il ritratto che qui ci viene presentato è quello di una donna fragile e allo stesso tempo determinata, che non si fa scrupolo di mentire pur di ottenere il plauso alle sue poesie o la pubblicazione delle sue raccolte, di una donna che fatica a conciliare il ruolo di moglie e madre, comune a tante donne della sua epoca, siamo nel periodo che va dall’immediato dopoguerra fino agli anni ottanta, con la sua smania di far parte di circoli letterari, di essere in contatto con il mondo della Milano culturale, di scrivere, di far conoscere le sue opere.
In parallelo a tutto questo la malattia mentale che si affaccia inesorabile a un certo punto della sua vita, l’internamento in manicomio, le terapie invasive, gli elettroshock ai quali viene sottoposta, la privazione della dignità, vicenda comune a tante persone che si trovavano a vivere l’esperienza devastante del ricovero in strutture che poco avevano a che fare con la cura delle malattie della mente. Ci sarà bisogno dell’ormai nota legge Basaglia del 1978 per porre fine a quel meccanismo di segregazione che rispondeva al nome di manicomio.
Emanuela Carniti però tiene a precisare a ragione che nella madre vi era una netta divisione fra il suo stato mentale e la sua poesia. Alda Merini infatti scrive poesie prima, durante e dopo la sua esperienza manicomiale; semmai è riuscita nell’intento di tradurre un disagio in quella che si è rivelata la sua cifra poetica, una lucidissima analisi di ciò che avveniva nella sua mente nei momenti più bui.
Ma la poesia della Merini non è fatta soltanto di disagio mentale, i suoi versi traboccano di vita, di eros, di spiritualità, di amore, dei suoi rapporti travagliati con i diversi uomini, a cominciare dal marito e padre dell’autrice di questa biografia, ai vari uomini che hanno accompagnato per un tratto la difficile vita di Alda.
In definitiva questo libro non è altro che il racconto di una figlia che descrive la propria madre, i suoi difetti, le sue debolezze ma anche le sue virtù e l’amore che traspare nella narrazione, in quello che non può essere definito come un comune rapporto madre – figlia. Questo ritratto però ci restituisce tutta l’umanità di Alda Merini, ben oltre il suo personaggio pubblico: le difficoltà economiche patite prima di diventare famosa e richiesta ovunque, le difficoltà a farsi pubblicare quando era poco più che una promessa della poesia contemporanea con aggiunto lo stigma della malattia mentale, la fragilità psicologica nell’affrontare la vita quotidiana, le stravaganze, il suo essere sempre e comunque sopra le righe, anche nei momenti positivi.
Il cerchio del racconto si chiude, se così si può dire, nel momento del funerale di quella che rimane sempre, nelle parole della figlia, semplicemente una madre: assistendo ai tributi che molta gente comune porta al feretro deposto in duomo durante il funerale di Stato, è come se Emanuela riuscisse a unire finalmente le due figure che hanno costituito la madre e il personaggio, una conciliazione tardiva forse ma necessaria, che ha permesso a lei e alle sue sorelle, di contribuire alla costruzione di uno spazio museo nei pressi dell’abitazione della madre e della sua poesia, con i suoi oggetti, i suoi ricordi, le sue parole.
Rimane un velo di tristezza, quasi di nostalgia chiudendo le pagine di questo libro, il quale altro non è che la storia di una donna che per tutta la vita, ha provato a cercare la libertà di volare, rimanendo purtroppo spesso ingabbiata all’interno di se stessa e delle sue paure.
Primogenita di quattro figlie, Emanuela Carniti nasce a Milano nel 1955 dalle nozze fra Alda Merini – poetessa (Milano, 21 marzo 1931 – Milano, 1º novembre 2009) ed Ettore Carniti. A soli quindici anni si sposa e si trasferisce a Omegna, sul lago d’Orta, dove abita da circa quarant’anni. La sua non è una scelta, ma la conseguenza di una fuga da casa col fidanzato di allora, fuga provocata da una lite tra i genitori. Emanuela frequentava, ai tempi, la scuola professionale, sebbene il sogno della sua vita fosse quello di diventare cardiochirurgo o interprete.
Due scelte davvero dissimili! Ma noi umani siamo così complessi, e così insondabile è la nostra anima…
Col tempo, riesce ad avvicinarsi almeno in parte al suo sogno, diventando infermiera. Lavora per cinque anni nell’Ospedale cittadino, poi, con l’avvento della Legge Basaglia, si lancia anima e corpo in quella direzione, riuscendo così a lavorare sul territorio in mezzo ai malati psichiatrici.
“In fondo era quello che avevo sempre desiderato: cercare di comprendere e aiutare chi aveva problemi come quelli che avevo vissuto con mia madre. E poi curare gli altri significa anche prendersi cura di se stessi” afferma, dolcemente consapevole, Emanuela.
Anche la passione per la scrittura è certo una dote in parte “genetica” , o comunque derivante dall’atmosfera respirata in famiglia. Un’eredità, un dono, un’attitudine lasciatale in dote da mamma Alda. Emanuela scrive da quando aveva circa vent’anni, anche se la prima poesia fu scritta per la madre poetessa all’età di nove anni: voleva essere il suo regalo di Natale.
L’autrice si definisce come una persona tendenzialmente solitaria, inquieta, un po’ tormentata e contraddittoria. Solo da poco sta cercando di ritrovare l’aspetto giocoso e rilassato dell’infanzia.
“Forse, per caratteristiche mie personali e per la mia tra-vagliata storia famigliare, quella fase della vita non l’ho vis-suta per nulla. Questo libro è un regalo che mi faccio. È il mio giocattolo, l’ho scritto io e non c’è niente di più creativo del giocare. Questo libro mi sta facendo ritrovare la mia anima bambina e la voglia di sorridere”.
Autore Roberto Maestri
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