Ken Kesey


A volte una bella pensata


Black Coffee Edizioni






“Alla fine di questa frase, partirete.. C’è un solo problema. La frase è lunga ottocento pagine. Abbiate pazienza. Ma alla fine partirete: garantito. State già partendo. Siete già lì. Avete messo un piede fuori. Come ‘fuori da cosa’? Da casa, da voi stessi, da tutto. Questa frase – questo libro immenso, in ogni senso – è una connessione stratosferica con quello che c’era prima e quello che è arrivato dopo, tra l’America degli anni Cinquanta e l’America degli anni Settanta, tra il passato e il futuro. È una cerniera spaziotemporale, un varco, e come tale contiene tutto il prima e tutto il dopo, ma contiene anche solo se stesso, come ogni libro: passaggio autonomo, confine a sé stante, fermo nel tempo e nella mente […]. Che cos’è il mattone che avete in mano? Che cos’è questa lunga frase che vi apprestate a leggere? […]. Ken Kesey immaginò il personaggio di un giovane studente universitario, Lee, che da New York torna in Oregon dalla famiglia d’origine, una famiglia di boscaioli. La madre, che l’aveva trascinato via da quel posto, dopo il divorzio del padre, si è suicidata. Il padre è ancora lì, ferito e menomato ma indomito. Il fratello, Hank, è un energumeno che lavora senza requie, fa a botte con tutti e ha una mogliettina caruccia e riflessiva, Viv. Tutta la famiglia ha bisogno d’aiuto, perché deve combattere contro i sindacati e continuare a lavorare per sopravvivere, ecco il motivo del ritorno a casa del figliol prodigo […]. Forse [il romanzo] è in primis una lunga recherche sulla fatica che si fa a essere liberi […]. Kesey […] qui rimodula […] l’idea che non ci sia libertà nel lavoro, non ci sia libertà nel sindacato, non ci sia libertà al di fuori del sindacato, non ci sia libertà nella famiglia, nella natura, nelle leggi che governano il creato. Tutte le dinamiche [del romanzo] sono governate da quella riottosità ai legami, che però allo stesso tempo nella sua inane ribellione ne ribadisce l’importanza. Il consorzio civile è un mostro che si dibatte immobilizzato sul tavolo operatorio della scrittore[…]. Hai voluto studiare? Era per ribellarti del tuo fratellone virile. Hai voluto fare a botte con tutta la comunità? Era per compensare l’aggressività di tuo padre. Hai voluto dare battaglia alla natura? Era perché in fondo in fondo volevi sentirti minuscolo al cospetto di quella potenza incoercibile. Tutto l’irrazionale rimanda al razionale e viceversa […]. È un romanzo che racconta la lotta eternamente americana tra individualismo e collettività”. Con queste parole Marco Rossari, nella sua bellissima introduzione, indica le principali chiavi di lettura di A volte una bella pensata (In Italia pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Sara Reggiani), capolavoro di Ken Kesey, una storia apparentemente semplice (e irresistibilmente tragicomica) che nel rappresentare una tormentata epopea di famiglia allarga il proprio sguardo al vivere sociale, alla natura dei rapporti tra le persone, all’amore e al suo indispensabile contraltare, l’odio, alle sottili dinamiche di potere che orientano e definiscono ogni scambio, e non ultimo alla velenosa pervasività della politica, cui non è possibile sfuggire.

Per dare vita a un quadro così complesso, nel quale il dettaglio ha la medesima importanza di ciò che risalta in primissimo piano, lo scrittore americano sembra mettersi consapevolmente nella situazione più difficile: ambienta il proprio romanzo in uno sperduto angolo dell’Oregon, modella ognuno dei suoi personaggi rappresentandoli come soldati di un esercito in rotta, sopravvissuti per miracolo a una battaglia decisiva miseramente perduta, ancora interi, certo, ma quasi del tutto privi di forze eppure ancora costretti a combattere, a lottare, perché la guerra è ancora ben lontana dal concludersi, prende le mosse da una situazione di fatto che fa credere di non aver creato, di essersi trovato di fronte, di non aver potuto evitare (una crisi tra il sindacato dei boscaioli e una famiglia, gli Stamper, il centro di gravità di tutto il libro, che forse non vuole, forse non può accettare le decisioni prose e per questo continua a lavorare e abbattere alberi quando tutti gli altri scelgono la strada del sacrificio e incrociano le braccia). Chiuso all’angolo dalle proprie scelte, Ken Kesey ricorre alle risorse del talento letterario (purissimo nel suo caso) per dare alla storia che intende narrare le ali di cui ha bisogno, si affida cioè allo stile, a una prosa rigogliosa e fiammeggiante, lieve e splendidamente evocativa nelle descrizioni e dall’impressionante potere demiurgico nella logorrea travolgente dei dialoghi. È infatti soprattutto qui che il romanzo tocca le vette più alte; Kesey permette alla parola di essere pienamente ciò che è per natura, un atto di creazione, e in questo modo dai discorsi, dagli scambi (ragionati o repentini che siano), dalla scelta delle cose da dire e della maniera in cui dirle i personaggi trovano e vestono la loro tridimensionalità, si fanno reali, da caratteri diventano persone autentiche. E dalle parole in un istante ecco giungere i pensieri, che altro non sono se non visioni del mondo non ancora condivise con il mondo stesso. Molta parte del libro è una sorta di panorama visto da occhi diversi che tuttavia guardano da una medesima finestra; l’oggettività dei fatti, spazzata via dalle interpretazioni personali, è il foglio sul quale l’inchiostro delle diverse impressioni, delle differenti sensibilità, dei singoli dolori, lascia il proprio segno, e ciò che è narrato, lungi dal fornire una spiegazione a quel che accade, si riduce a null’altro che a voce tra le tante, a testimonianza tra le innumerevoli possibili.

Cosa resta allora di oltre ottocento pagine di storia? La storia e null’altro. La storia vissuta da coloro che hanno contribuito a farla, compresa quel tanto che è possibile e in tal modo restituita; una storia non intatta, disordinata, senza principio né fine, senza tregua, senza respiro, dove la vittoria è al massimo una sconfitta mancata o un rovescio cui bene o male si è fatto fronte. Una storia vera.

Eccovi l’incipit, buona lettura.

Lungo le pendici occidentali della catena costiera dell’Oregon… venite a vedere: il febbrile contro degli affluenti che sfociano nel Wakonda Auga…








Ken Kesey, nome completo Kenneth Elton Kesey (La Junta, 17 settembre 1935 – Eugene, 10 novembre 2001), è stato uno scrittore statunitense.

Esponente della controcultura statunitense della seconda metà del secolo scorso, Kesey divenne noto per il romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo's Nest, 1962). Reputato da alcuni un trait d'union tra la Beat Generation degli anni cinquanta e la cultura hippie degli anni settanta, in un'intervista radiofonica rilasciata nel 1999 affermò a tal proposito: «Ero troppo giovane per essere un beatnik, ma troppo vecchio per essere un hippie».

Nel 1959 all'Università di Stanford Ken Kesey prese volontariamente parte ad uno studio sulle sostanze psicoattive finanziato dalla CIA, noto con il nome di MKULTRA. Queste sostanze includevano LSD, mescalina, psilocibina, cocaina e DMT. Kesey scrisse resoconti molto dettagliati su quest'esperienza, sia durante lo studio vero e proprio, sia negli anni in cui proseguì privatamente la sperimentazione.

Per la stesura di Qualcuno volò sul nido del cuculo Kesey trasse ispirazione dalla sua esperienza nell'ospedale dei veterani di Menlo Park. Qui Kesey passò molto tempo a parlare con i pazienti, a volte sotto l'effetto delle droghe psicoattive che aveva volontariamente deciso di testare. Egli riteneva che questi pazienti non fossero "pazzi", bensì individui rifiutati dalla società perché non conformi agli stereotipi convenzionali di comportamento e pensiero.

Quando la pubblicazione di A volte una bella pensata nel 1964 richiese la presenza di Kesey a New York, questi e i Merry Pranksters iniziarono un viaggio attraverso gli USA con uno scuolabus chiamato Furthur o Further. Questo viaggio, descritto in The Electric Kool-Aid Acid Test di Tom Wolfe e in The Further Inquiry di Kesey stesso, era un vero e proprio tentativo di fuga dalla routine quotidiana. Una volta a New York, Neal Cassady, uno dei compagni di viaggio dell'autore presentò Kesey a Jack Kerouac e ad Allen Ginsberg, il quale a sua volta gli fece conoscere Timothy Leary. Di A volte una bella pensata fu elaborata una versione cinematografica nel 1971 con Paul Newman, che fu nominato per due Academy Awards. Fu anche il primo film trasmesso dalla nuova rete televisiva della Pennsylvania HBO nel 1972.

Kesey morì il 10 novembre 2001 di tumore. (Fonte Wikipedia).




Autore Paolo Vitaliano Pizzato.

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