Jack London 

Il popolo dell'abisso

Oscar Mondadori




"Di tutti i miei libri, quello che amo di più è Il popolo dell’abisso. Nessun altro mio lavoro contiene tanto del mio cuore e delle mie lacrime giovanili quanto quello studio della degradazione economica dei poveri.”

Nel 1902 Jack London è già considerato un autore promettente, ha un buon contratto editoriale e una discreta tranquillità economica. Insomma, se ne potrebbe stare tranquillo nel suo studiolo affacciato sulla Baia di San Francisco a studiare, leggere e scrivere, godendosi le chiacchiere dei salotti mondani e la compagnia delle belle signore. Invece che fa? Armato di taccuino e kodak prende e parte, raggiunge la costa est degli Stati Uniti (nu mumento-mumento 5000 chilometri) e, tutt'altro che stanchino, si imbarca su una nave destinazione vecchio mondo. A Londra, non contento, si fa venire la brillante idea di spogliarsi delle sue vesti da signorotto borghese e come un novello San Francesco si immerge, lercio e cencioso, negli abissi dell'East End, il luogo o meglio il non-luogo, più miserabile di tutta Londra, un vero e proprio inferno in Terra, dal quale i suoi contatti londinesi provano, senza successo, a metterlo in guardia 'ché la vita lì vale meno di un tozzo di pane e dovrai guardarti da molti pericoli e t'andrà bene se ne uscirai sulle tue gambe' (semplifico io ché il brano in questione ho mancato di sottolinearlo). 84 giorni in cui sperimenta ogni sorta di privazione, di umiliazione, di dolore. E in cui vive l'orrore di luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, dove i bambini muoiono, e non solo d'inedia e malattia, gli uomini si rifugiano nell'oblio alcolico e le donne svendono il proprio corpo come pezzi di carne al macello. 

London condivide il proprio quotidiano gomito a gomito con gli ultimi della società: vagabondi, disoccupati, clochard, portuali, prostitute e li racconta come solo lui avrebbe potuto fare, immedesimandosi nel loro disagio esistenziale, assumendone le ansie, la frustrazione, la disperazione, quasi come se condividerle potesse in quale modo contribuire ad alleviarle, manco fosse un antesignano del John Coffey di King. 

E qua mi si consenta una parentesi: se Jack London è Jack London e se ancora oggi, dopo miglia di libri letti, resta lo scrittore che più amo e apprezzo è proprio per questa sua capacità di entrare in empatia con chiunque desti la sua curiosità e il suo interesse. L'efficacia dei suoi scritti deve tantissimo a questa sua naturale dote, all'interrogarsi continuo su ciò che provano gli altri (sì, persino gli animali) e alla ricerca delle risposte che affidava poi a pagine impregnate di una sensibilità invasiva, capace di risvegliare nei lettori sentimenti troppo spesso sopiti sotto strati di placida, comoda, rassicurante indifferenza. 

Il Nobel gli avrebbero dovuto dare, fors'anche solo per 'sta cosa, che fu, per lui, grazia e maledizione insieme. Vabbuò, scusate lo sfogo. Tornando all'abisso: il reportage giornalistico che inizialmente London ha in mente inevitabilmente finisce per risentire della sua pressoché totale incapacità di attenersi ai soli dati numerici nudi e crudi. London entra nel dettaglio di quei numeri e, così, sotto l'obiettivo della sua fedele Kodak e del suo inseparabile taccuino, finiscono personaggi dalle storie incredibili, come il buon Dan Cullen che per ragioni tutte mie m'è rimasto nel cuore (leggendo Il popolo dell'abisso accadrà anche a voi, non necessariamente con Dan). E qui forse è il caso di leggere cosa ne dice lo stesso London. 

"La storia di Dan Cullen è breve e triste. Era di origini umili e per tutta la vita aveva svolto pesanti lavori fisici. Poiché però aveva 'aperto i libri' e 'sapeva scrivere lettere come quelle degli avvocati' era stato scelto dai suoi compagni perché lavorasse per loro con la mente. Finì per rappresentare gli scaricatori nel consiglio dei sindacati di Londra e scriveva articoli incisivi per la causa. Non temeva altri uomini, neanche i suoi padroni, diceva liberamente ciò che pensava e si batteva per le buone cause. Nel grande sciopero dei moli ebbe la colpa di rivestire un ruolo importante e fu la sua fine. Non lo mandarono via - si sarebbero creati dei problemi - ma il caposquadra lo chiamava giusto un paio di giorni a settimana. È quello che chiamano 'mettere in riga' e significa morire di fame, non c'è un modo più gentile di dirlo."

Di storie così ne è pieno il libro, storie nelle quali Jack London riesce nel miracolo di elevare taluni, umilissimi personaggi a eroi - talora martiri - della società, sottolineandone gli epici sforzi e celebrandone i sacrifici e le nobili gesta, gesta che brillano come stelle luminose in un abisso di degrado e brutture, che pure mai cela. 

Da leggere e rileggere. Ancora oggi. 


Recensione di Luigi Giampietraglia.




Jack London, pseudonimo del romanziere statunitense John Griffith London (San Francisco 1876 - Glen Ellen, California, 1916). Dopo una giovinezza scapigliata e priva di un'educazione regolare, l'esperienza dell'imbarco per il Mare Artico, la scoperta del socialismo e del proprio entusiasmo per la letteratura, l'apprendista scrittore iniziò a pubblicare i suoi racconti sull'Atlantic Monthlynegli ultimi anni del secolo. Al 1902 risale il primo romanzo, A daughter of the snow, seguito da The call of the wind (1903), suo primo grande successo, legato alla suggestiva figura del cane da slitta Buck e alle sue avventure nei ghiacci del Klondike. In brevissimo tempo London raggiunse un'enorme popolarità sia con i romanzi d'avventura (tra i quali The sea-wolf, 1904; The game, 1905; White fang, 1906), tutti incentrati su una visione fortemente influenzata dal darwinismo, sia con opere di carattere saggistico che uniscono al marcato impegno politico una prosa talvolta scomposta, ma sempre di grande capacità evocativa (The people of the abyss, 1903; The war of classes, 1905; The iron heel, 1908). Accanto a Martin Eden (1909), storia a sfondo autobiografico sul suo apprendistato letterario, vanno ricordati The valley of the moon (1912), John Barleycorn (1913), sorta di memoriale sugli effetti dell'alcol, e il suo ultimo romanzo, The star rover (1915). (Fonte Treccani.it)

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