Julien Green
Vertigine
Nutrimenti Edizioni
La raccolta di racconti dal titolo “Vertigine” di Julien Green, che mi accingo a presentare, mi ha spinto ad appuntarmi più volte frammenti di pensieri col timore che questi svanissero; baluginavano precariamente nella flebile attesa che li cogliessi; il difficile è stato poi ricomporre il puzzle, con tutti quei pezzi…
Non posso negare che “Vertigine” mi ha trasportato in una dimensione al confine tra realtà e irrealtà, tra la materialità – della carne che puoi toccare, delle parole che puoi udire, delle pene e sofferenze e paure che tu puoi esperire o produrre nell’altro – e l’immaterialità – del sogno, dell’astrazione, delle proiezioni della propria mente che colmano il buio, l’ombra, l’oscurità e le tenebre (interne o esterne che siano). L’effetto che il posto che Julien Green ci invita a occupare – questo scomodo anfratto tra realtà e irrealtà; questa «sensazione di trovarmi al confine fra due mondi», come l’autore scrive nel racconto “Fabien”, tra quelli che più mi son piaciuti – è fortemente estraniante. Ti ritrovi a chiederti: che cosa devo trarre dalle tue parole, Julien Green? Che cosa mi vuoi dire? A che cosa, di volta in volta, mi stai mettendo di fronte? Ma le risposte non arrivano; Green lascia al lettore “sognare”, ossia immaginare come il racconto potrebbe finire, perché la fine è sempre meno chiara dell’inizio. Volutamente meno chiara.
Ed eccolo allora il disorientamento. A contatto con l’opera di Julien Green provi un naturale, comprensibile disorientamento di fronte a situazioni che accolgono contrasti e similitudini, verità e falsità, ragionevolezze e irragionevolezze, bizzarrie e normalità, certezze e incertezze; il disorientamento ti accompagna come un amico fedele: che cosa succede ora che il racconto è finito senza che ti abbia dato parole per mettere un punto fermo alla vicenda, come una strada che proietta sul vuoto? È una domanda, questa, che facilmente viene alla mente. Ecco, il disorientamento che provi è proprio di chi non ha punti di riferimento; Julien Green ti pone in questo stato, e tu ti senti perso e frastornato.
La scena di una stanza buia, da cui leggera emerge una nota luminosa – forse quella di una debole candela –, che invoglia a entrare, nonostante il naturale timore, con la promessa mefistofelica, comunicata da qualcosa di impalpabile in quell’atmosfera, che una volta entratoci potrai realizzare il tuo più intimo desiderio, avendo forte tuttavia la sensazione che il cedervi ti sarà fatale in qualche modo, descrive bene l’impressione che mi hanno lasciato le pagine di “Vertigine”.
Probabilmente è improprio il paragone, lo so, forse Julien Green non lo avrebbe accettato, ma non ho potuto fare a meno di pensare, marcatamente per alcuni racconti, alle opere artistiche del surrealismo; ma se in quest’ultimo caso il prodotto è ascrivibile al sogno e alla follia, in luogo di una ragione e una logica che si perdono, nei racconti di Julien Green non è impensabile che i prodotti dell’Es – avrebbe detto Freud –, costituito da impulsi, pulsioni e desideri sopiti (a esempio di sadismo, molto presenti in questi racconti), espressi anche attraverso il sogno e la follia negli stessi racconti di Green, possano, sì, trovare sfogo anche nello stato di veglia ma essere tuttavia oggetto di una razionalizzazione, spesso portata avanti con un tono quasi distaccato, come se il soggetto di queste dinamiche pulsionali fosse in uno stato di depersonalizzazione. Molti dei personaggi di cui parlano i racconti di “Vertigine” poi sono persone che cercano qualcosa, che sono inquieti, che si sentono incompresi – uno dei racconti s’intitola appunto “Diario di un incompreso” – e che a volte hanno la sensazione che stare da soli con loro stessi gli risulti persino insopportabile: questi personaggi oscillano tra il «peso di una noia terribile» e una «vita assolutamente vuota». Sono personaggi che mettono a nudo, attraverso il racconto spesso delle loro vicende personali, «i loro segreti, i loro piccoli intrighi e tutte le miserie di cui è fatta la [loro] vita».
Insieme ai personaggi di cui ci parlano i vari racconti, le stanze e gli specchi sono, per me, i veri co-protagonisti. Le une, come posti chiusi, dotati di confini, rispondono sempre «a qualcosa di così profondamente interiore» tanto che a loro vengono conferite qualità nuove e inconsuete: anche lo spazio che i personaggi occupano – appunto le stanze – sembra quindi risuonare con i vissuti interni dei loro ospiti. Gli altri – gli specchi – hanno una funzione riflessiva che mostra ai personaggi, m’è sembrato, realtà più desiderate, più anelate, col solo espediente di un cambio di prospettiva che è poi un cambio di prospettiva interiore, nel senso che, guardandovici dentro, i personaggi è come se guardassero dentro sé stessi, come se potessero percorrere quelle intime strade tortuose che indirizzano verso i loro più profondi e indicibili desideri; in definitiva, gli specchi mostrano loro ciò che essi vogliono davvero, ciò che essi sono davvero, e le stanze sono in grado di rivelare loro, mutando, almeno nella percezione che i protagonisti ne hanno, la loro raggiunta consapevolezza.
Ogni racconto, insomma, è un quadro che accoglie sulla propria tela sensazioni ed eventi, proiezioni e fatti, illusioni e realtà, interiorità (spesso oscuramente ribollenti e vulcaniche) ed esteriorità (vissute come troppo strette e inaccettabili). Ogni racconto di cui è composto “Vertigine” ha i colori del tramonto campestre, allorquando «la luce naufraga lentamente, all’orizzonte rosseggiante, dietro un vasto campo di grano dove le spighe per un istante scintillano come lance. È così dolce la notte che sta avanzando, così tenera e bella che persino il più violento tra gli uomini dimenticherebbe la sua rabbia se camminasse in questa penombra innocente. Si potrebbe pensare a una tregua del male in un mondo stanco di odiare. E, all’improvviso, le spighe si piegano, l’erba è percorsa da un fremito, e un’inquietudine s’impossessa della radura mentre le prime stelle sorgono nel cielo buio».
La ‘vertigine’ allora è quella che si sperimenta poco dopo aver preso la decisione di abbandonarsi a un qualche desiderio, a cui magari a lungo si è stati costretti a rinunciare, e poco prima di aver realizzato di essere nelle condizioni di vederlo tramutarsi in realtà. È lo stato proprio di questo frangente, la cui durata ci sembra si dilati infinitamente, che pare darci il potere di un dio, e che non siamo certi di riuscire a gestire nel più appropriato dei modi. Ma è anche quella che segue il momento della rivelazione, allorquando ci si accorge di aver abbandonato le precedenti certezze per abbracciare una nuova realtà (quella desiderata) che si è rivelata vuota nei doni che ci aveva promesso; a questo punto, guardandoci dentro, ci sentiamo come alle soglie di un baratro in balia delle vertigini nell’avvertire, affacciati su quel tremendo abisso, «l’assoluta vanità della [nostra] esistenza».
In “Vertigine”, raccolta di racconti databili tra il 1920 e il 1956, Julien Green ci dà prova di una perfetta capacità di caratterizzare psicologicamente i personaggi e, al tempo stesso, di una scrittura altamente immaginifica che cattura il lettore intrappolandolo nelle sue maglie, come un brutto sogno dal quale non ci si riesce a svegliare. Insomma, questo scrittore, che ha saputo compiere al massimo grado una «indagine introspettiva sull’uomo», merita di essere letto e scoperto, così come questa interessantissima raccolta di racconti.
I traduttori sono Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco, Francesca Scala, Ezio Sinigaglia e Filippo Tuena.
Recensione di Matteo Celeste.
Julien Green (nome francesizzato di Julian Hartridge Green; Parigi, 6 settembre 1900 – Parigi, 13 agosto 1998) è stato uno scrittore e drammaturgo statunitense che passò gran parte della sua vita in Francia. Fu uno dei pochi autori ad essere stato pubblicato nella collezione Pléiade mentre era in vita.
Julien Green nacque a Parigi, da genitori americani. La madre era figlia del senatore e rappresentante democratico della Georgia al congresso americano Julian Hartridge (1829-1879), dal quale ebbe il nome (Green è stato battezzato "Julian"; l'ortografia venne cambiata in "Julien" dal suo editore francese negli anni '20).
Entrò nel Lycée Janson-de-Sailly dove compì tutti i suoi studi. Aveva quattordici anni quando morì sua madre, di religione protestante. Dopo la morte della madre, la famiglia si trasferì in Rue Contambert, al n. 16.
Dopo la morte della madre, si convertì dal Protestantesimo al Cattolicesimo, al pari del padre e di molte delle sorelle. La cerimonia del Battesimo ebbe luogo il 29 aprile 1916 e il giorno dopo il ragazzo ricevette la Prima Comunione Nel 1917, Julien Green si arruolò nel Servizio delle ambulanze americane; successivamente, nel 1918, fu distaccato nell'artiglieria francese. Congedato nel marzo 1919, si recò per la prima volta negli Stati Uniti nel mese di settembre e portò a termine tre anni di studio all'Università della Virginia, dove visse un primo amore casto e segreto per un compagno di studi, e dove scrisse il suo primo libro in inglese.
A Parigi, avviò una relazione con Robert de Saint Jean e tentò la carriera di pittore (conobbe Christian Bérard), ma il riconoscimento ottenuto negli anni Venti, dalle sue prime pubblicazioni, lo indirizzò definitivamente verso quella di scrittore, uno tra i maggiori scrittori di letteratura francese del XX secolo. Fu in quel periodo che iniziò a confrontarsi con l'ambiente letterario di Parigi, in particolare con Jacques Maritain e sua moglie Raïssa Oumançoff, François Mauriac, André Gide e Jean Cocteau.
Nel luglio 1940, dopo la disfatta della Francia, tornò in America. Nel 1942 fu mobilitato e mandato a New York per prestare servizio presso l'American Bureau of War Information. Da lì, cinque volte alla settimana, parlava alla Francia al programma radiofonico Voice of America, collaborando tra gli altri con André Breton. Insegnò letteratura in una facoltà di giovani americane. Fece ritorno in Francia subito dopo la seconda guerra mondiale e ritrovò la fede della sua giovinezza.
Fu eletto all'Accademia di Francia il 3 giugno 1971, al seggio 22, succedendo a François Mauriac, e fu il primo straniero ad accedere a questo onore. Il Presidente della Repubblica Georges Pompidou gli propose nel 1972 la nazionalità francese, ma l'accademico declinò il favore. L'insediamento ufficiale ebbe luogo il 16 novembre 1972. Dall'Accademia francese si dimise nel 1996, senza mai essere sostituito sino alla morte.
Julien Green è il padre adottivo dello scrittore Éric Jourdan che gli rimarrà vicino fino alla sua scomparsa. Si spense a Parigi il 13 agosto 1998.
È stato sepolto il 21 agosto 1998 a Klagenfurt (Austria) nella Chiesa di Sant'Egidio. Assai colpito da un'antica statua della Vergine Maria in occasione di una visita del 1990, lo scrittore aveva infatti espresso il desiderio di essere sepolto in una delle cappelle della chiesa. Dal 19 febbraio 2015, riposa accanto a lui anche il figlio adottivo, lo scrittore Éric Jourdan, scomparso pochi giorni prima a Parigi.
Tutta l'opera di Green, profondamente segnata sia dalla sua omosessualità che dalla sua fede cattolica, è dominata dalla questione della sessualità e da quella del Bene e del Male.
La maggior parte dei libri di questo cattolico praticante verte su problemi di fede e religione e sull'ipocrisia di cui esse sono intrise. Molti suoi libri hanno trattato degli Stati Uniti del Sud, l'autore è stato definito nei suoi scritti come un Sudista. Ereditò tale patriottismo dalla madre, che proveniva da una famiglia distinta del Sud.
In Francia, durante la sua vita e ancora oggi, la fama di Julien Green si basa non solo sui suoi romanzi, ma anche sul suo diario, pubblicato in diciannove volumi che coprono il periodo dal 1919 al 1998. Questo Journal offre una cronaca della sua vita letteraria e religiosa, e soprattutto un panorama della scena artistica e letteraria a Parigi per quasi 80 anni. Lo stile di Green, austero e risolutamente attaccato all'uso del passato semplice – che pochi autori del suo secolo ancora praticavano – trovò il favore dell'Accademia di Francia, di cui divenne il primo membro di nazionalità straniera. (Fonte Wikipedia)
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