Gore Vidal
Giuliano
Fazi editore
Ci si chiede mai perché alcune figure storiche, una volta che si conosce di loro la vita, le opere, le gesta, parendoci allora impossibile non siano ricordate quanto se non più di altre, svaniscono nelle pieghe del tempo?
È ciò che è capitato all’imperatore Giuliano – dai cristiani definito Giuliano l’Apostata –, protagonista del romanzo storico “Giuliano” di Gore Vidal. Il romanzo storico, genere scelto da Vidal per raccontarne la vita, fu scelto «perché, quando si ha a che fare con epoche così lontane, si ricorre comunque in modo massiccio all’invenzione, come ha ammesso disinvoltamente anche Finley [Moses Isaac. Storico anglo-americano, esperto di storia antica]. Inoltre, senza l’immaginazione storica, anche la storia convenzionale è priva di valore. Infine, c’è l’emozione che si prova quando comincia a emergere uno schema.»
Chi è stato allora l’imperatore Giuliano? E che cosa ha fatto?
Giuliano faceva parte della gloriosa dinastia costantiniana. Nipote di Costantino il Grande, allorquando questo morì il 22 maggio del 337, la vita di Giuliano (e del fratellastro Gallo) cambiò. Costantino il Grande, infatti, aveva fatto allontanare i suoi fratellastri per timore che gli usurpassero il trono. Quando egli morì, i suoi figli, Costanzo II, che divenne poi imperatore d’Oriente e d’Occidente, quando morirono i suoi fratelli, Costante, a cui per testamento il padre aveva lasciato l’Italia e l’Illiria, e Costantino II, a cui per testamento il padre aveva lasciato la prefettura della Gallia, si spartirono l’impero del padre. Fu Costanzo II, però, che, mosso dalle stesse paure del padre, fece vivere i suoi giovani cugini “sotto controllo” e lontani da Costantinopoli, mentre fece assassinare il loro padre, Giulio Costanzo, cosicché non potesse reclamare il trono del fratellastro.
È proprio in questo periodo di “vigilanza” che da Mardonio apprende la filosofia e vi si appassiona e, successivamente all’allontanamento di Giuliano da questi per ordine di Costanzo II, assistito ora dal vescovo Eusebio, Giuliano impara quanto occorre sul cristianesimo. È dall’incontro con queste lezioni sul cristianesimo impartite dal vescovo Eusebio che Giuliano inizia ad avere posizioni critiche (debitamente tenute nascoste) sul cristianesimo e diviene sempre più attratto dall’ellenismo.
Comincerà così per lui una scalata che lo vedrà divenire prima Cesare della Gallia, titolo che otterrà nel 355, e poi Imperatore d’Oriente e d’Occidente nel 361, anno della morte di Costanzo II.
La principale riforma sociale messa in campo da Giuliano fu quella di proclamare la libertà di culto in tutto il mondo: ripristinò così tutti i culti che erano stati vessati dall’avanzata del cristianesimo con il precipuo obiettivo di arrestarla, tale avanzata. Sperava infatti che tale editto avrebbe riportato in auge una tradizione che aveva generato la storia stessa dell’Impero Romano, ossia quella dell’ellenismo.
Ma Giuliano non era solo un grande filosofo – un altro suo nome era Giuliano il Filosofo –, era anche uno scrittore, un politico e uno stratega militare di altissima qualità e spessore. Come ricorda, in una sintesi più che efficace, Domenico De Masi nella sua postfazione all’opera, «come condottiero, Giuliano ottenne la più grande vittoria degli eserciti romani in Gallia dopo Giulio Cesare. Come governatore fu clemente, giusto e inflessibile. Come uomo fu affascinante. Come scrittore fu brillante. Come amante fu tenero. Come marito fu fedele. Come conquistatore arrivò da Parigi a Ctesifonte. A trentadue anni realizzò imprese che Traiano, universalmente elogiato come il massimo stratega romano, non riuscì a compiere nel doppio degli anni. Ancora giovanissimo, fu imperatore di Roma e signore del mondo.» Perché, allora, l’imperatore Giuliano non viene ricordato tra i grandi imperatori dell’Impero Romano? Per rispondere in modo compiuto, mi viene in mente una bellissima scena di un film delizioso che amo moltissimo, “Il club degli imperatori”, in cui il professore di storia e civiltà antiche, insegnante in un prestigioso college, alla prima lezione menziona ai suoi allievi Shutruk-Nakhunte, sovrano della terra di Elam, chiedendo loro se lo conoscono o se riescono a trovare di lui delle informazioni sui loro libri di testo. La risposta (ovvia) è che, nonostante le sue grandi imprese, nessuno lo conosce. «Perché?», domanda allora il professore. «Perché», risponde, «le grandi ambizioni e le conquiste senza nessun apporto costruttivo sono prive di significato.» La vita di Giuliano si adatta a questa spiegazione? Direi in parte: al netto dell’interesse comune a tutti gli imperatori romani – tenere unito se non espandere l’Impero stesso, ciò che rappresenta ovviamente l’apporto costruttivo delle loro gesta –, è nella riforma sociale di Giuliano, nell’obiettivo che si era prefisso e che ho esplicitato prima, che si annida l’apporto non costruttivo della sua impresa, perché tale riforma minava l’impianto sociale che in una cinquantina d’anni, da Costantino il Grande a Costanzo II, si era andato definendo. Non c’era più l’humus adatto affinché l’ellenismo, con i suoi usi, costumi, tradizioni, dèi, attecchisse nuovamente o rinascesse dalle sue ceneri; Giuliano non l’aveva capito o, più probabilmente, convinto di essere protetto da Elios, non gli aveva dato tanta importanza. È curioso, a tal proposito, scoprire come una acuta intelligenza, quale quella di cui disponeva Giuliano, e che a lungo l’aveva tenuto in vita e gli aveva fatto compiere scelte sagge in periodi piuttosto complessi, potesse essere così fortemente soggiogata da una sconfinata credulità, che lo condusse alla morte nel 363, dopo soli tre anni di regno e alla giovanissima età di trentadue anni. La sua riforma sociale, dunque, avrebbe potuto portare a una vera e propria guerra civile tra “galilei”, come usava chiamarli Giuliano, ossia i cristiani, e gli ellenisti, mentre i persiani minacciavano i confini orientali dell’Impero Romano e i barbari quelli occidentali.
Giuliano è stato senza dubbio un anti-eroe: viene sconfitto; le sue gesta non vengono ricordate per questo motivo: la storia la scrivono pur sempre i vincitori… Ed è forse proprio questo che ha spinto Gore Vidal a occuparsi della sua vita e, in cinque anni di studio intensissimi, a scrivere una sua biografia.
Gore Vidal ci ha regalato un ritratto non solo storico ma anche psicologico dell’imperatore Giuliano di grandissima efficacia, potenza e fascino, e se, come dice sempre De Masi, «dei quattro romanzi più fortunati che narrano vite di imperatori romani (“Memorie di Adriano” della Yourcenar, “Io, Claudio” e “Il divo Claudio” di Graves, “Giuliano” di Vidal) questo è di gran lunga il più “colto”, il più ricco di riferimenti a luoghi e fatti precisi, quello che si muove più disinvoltamente tra le figure che si affollarono intorno a Giuliano e nei luoghi innumerevoli in cui, da pagano errante, egli fu spedito o si spedì» oltre che essere considerato, come recita la sovraccoperta, “tra le opere di narrativa più importanti della letteratura americana del Novecento”, un motivo ci sarà. Ebbene, vi invito a scoprirlo…
La traduzione magnifica ci è stata donata da Chiara Vatteroni.
Recensione di Matteo Celeste.
Gore Vidal (West Point, New York, 1925 - Los Angeles 2012), autore ironico di una vasta serie di opere narrative che abbracciano vari temi, dall'ambiguità sessuale alla vita familiare, dalla storia antica, anche leggendaria, rivisitata alla fantasia filosofica, dalla satira politica al giallo, alla storia americana. Le sue forme espressive sono i romanzi, le opere teatrali e i saggi; in questi ultimi si trovano alcune fra le pagine più vivaci prodotte dalla critica statunitense nei tempi moderni.
Diplomato alla Phillips Exeter Academy, arruolato in marina durante la seconda guerra mondiale, tradusse la sua esperienza nel romanzo d'esordio Williwaw (1946), cui fecero seguito In a yellow wood (1947) e il controverso The city and the pillar (1948; n. ed., interamente rivista, col tit. Jim, 1965). Dopo i meno felici The season of comfort (1949), A search for the king (1950), The judgement of Paris (1952), Messiah (1954), e alcuni libri gialli, scritti sotto lo pseudonimo di Edgar Box, fu attivo come sceneggiatore televisivo e cinematografico e come autore di testi per il teatro (Visit to a small planet, 1955; A sense of justice, 1955; The best man, 1960). Tornò al romanzo con due tra le sue opere più convincenti: Julian (1964) e Myra Breckinridge (1968), dissacrante incursione satirica tra i miti americani. Scrittore colto e ironico, come ben testimoniano le numerose raccolte di articoli e saggi (Rocking the boat, 1962; Reflections on a sinking ship, 1969; Matters of fact and matters of fiction, 1977; A view from the diners club: essays 1987-1991, 1991; United States: essays 1952-1992, 1993, premiato con il National Book Award; The Last Empire: essays 1992-2000, 2000), V. ha posto ripetutamente al centro della sua opera la storia americana: Washington D.C. (1967); An evening with Richard Nixon (1972); Burr (1973); 1876 (1976); Creation (1982); Duluth (1983); Empire (1987); Dark green, dark red (1995); The golden age (2000); Inventing a nation: Washington, Adams, Jefferson (2003); Imperial America: reflctions on the United States of Amnesia (2004). Le sue memorie sono state pubblicate nel 1995 con il titolo Palimpsest: a memoir, cui ha fatto seguito Point to point navigation: a memoir (2006); una raccolta di suoi testi è, infine, in The selected essays of Gore Vidal (2008). Dagli anni Sessanta ha vissuto tra gli USA e l'Italia, dove la sua opera è ampiamente tradotta.
(Fonte Treccani.it)
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