Francesco Tomada, Anton Špacapan Vončina


Il figlio della lupa


Bottega Errante Edizioni









“Due coni di luce fendono la bufera, facendo sembrare mosche nere i fiocchi di neve intercettati dal perimetro dei fari. L'autocarro SPA25 si apre la strada slittando nei solchi appena corrosi dal sale. Sobbalza la camionetta e sobbalzano i soldati, scuri, rattrappiti dentro le proprie ossa. Sguardi cupi, smarriti, incattiviti. Uno no. Uno si ostina a guardare la feritoia tra il montante di ferro e il telone mal agganciato sul retro della carlinga. Entra la neve da quella fessura, si incolla agli scarponi e alle caviglie di queste sagome intirizzite. Anche su di lui, che aspetta. Guarda gli altri che, a capo chino, rassegnati, sembrano proiettili in attesa di venir sparati da qualche parte, più tardi. Lui no. Lui pare diverso, fuori posto, quasi sprezzante. Da uno spiraglio della cerata guarda fuori lì dove i fari fanno luce. Dietro a sé, invece, l'autocarro trascina una cortina di buio. Così scende la sera del febbraio 1931.”

Ci sono frontiere che sembrano perseguitate dal destino. Una di queste è senz'altro quella che corre a est dell'Italia settentrionale, una frontiera che negli ultimi cento anni ha cambiato spesso bandiera e posizione.

Ed è proprio in un piccolo paese, Čepovan ribattezzato Chiapovano, vicino a quella frontiera mobile che si svolgono i fatti narrati ne Il figlio della lupa, romanzo scritto a quattro mani dal goriziano Francesco Tomada e lo sloveno Anton Špacapan Vončina, un romanzo che tratta delle vessazioni che subirono gli abitanti di quelle zone, da poco passate dall'impero austroungarico alla dominazione dell'Italia fascista che imponeva loro di cancellare ogni traccia della loro cultura slovena a partire da quella lingua che ne caratterizzava l'identità.

Non a caso da questa imposizione prende avvio proprio nella scuola del paese, dove a far le spese delle nuove regole imposte è proprio la maestra, rea di non aver infuso nei suoi scolari una sufficiente abnegazione verso il nuovo regno che li ha accolti, si fa per dire, come sudditi.

I malumori dei ragazzi ma non solo, anche degli adulti, soprattutto i vecchi, fanno sì che l'assimilazione delle nuove leggi facciano fatica a imporsi, complici anche credenze ataviche che lungi dall'essere considerate solo leggende, vengono sottaciute ma ugualmente aleggiano e condizionano la vita di quella piccola comunità del Carso goriziano. E non saranno certo il cieco autoritarismo di un ufficiale dei carabinieri e dei suoi sottoposti a piegare la volontà di quelle persone a partire da Srečko, un bambino che, spalleggiato dal nonno Miroslav e da un'entità che possiamo considerare misteriosa, tiene testa quasi da solo a una milizia che si trova impreparata a fronteggiare un'avversario tanto piccolo quanto agguerrito.

Il romanzo è contaminato da punte di fantastico nel suo sostenere antiche credenze che trovano però più di un fondamento negli accadimenti narrati. Il tutto però non si discosta troppo da una realtà tragica che ha nutrito i suoi drammi in quei giorni, siamo nel 1931, in quelle terre che hanno patito sconvolgimenti e violenze perpetuatesi anche oltre la fine del secondo conflitto mondiale.

Un romanzo che mescola fantasia e verità storica, restando fedele a quelle atmosfere e sentimenti che hanno pervaso quelle terre orgogliose della loro identità, anche perché i fatti narrati sono il frutto di testimonianze di chi ha vissuto quei momenti o ne è un discendente:

Sono passati alcuni anni dagli accadimenti narrati nel libro che avete fra le mani. Alcuni testimoni non ci sono più, altri ancora resistono e proprio alcuni di loro, e soprattutto i loro discendenti, hanno espresso la volontà di non venire menzionati con i loro nomi propri. E così è stato fatto. Gli autori però non intendono specificare in dettaglio quali di questi nomi non corrispondono e quali sono reali, lasciando alla storia il proprio dipanarsi tra le nebbie... e la neve. (Dalle note introduttive al volume).

Quella frontiera sembra oggi finalmente pacificata, la libera circolazione di persone e merci è quotidiana e senza intoppi, ma romanzi come questo hanno il pregio di ricordarci che la Storia, nel suo rinnovare le tragedie, è sempre pronta a ripresentarsi come uno spauracchio, qualora si dovesse abbassare la guardia rispetto a nazionalismi e prevaricazioni etniche che non sono mai abbastanza sopite.






Francesco Tomada è nato nel 1966, vive a Gorizia. Ha pubblicato le raccolte L'infanzia vista da qui (Sottomondo, 2005), A ogni cosa il suo nome (Le voci della luna, 2008), Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli, 2014), Non si può imporre il colore ad una rosa (Carteggi letterari, 2016), Affrontare la gioia da soli (Pordenonelegge/Samuele, 2021). Per la collana “Autoriale” (Dot.Com. Press) è stata edita nel 2016 una sua antologia ragionata.
I suoi testi sono tradotti in una quindicina di lingue straniere. Una selezione dal titolo Questo è il mio tempo è stata edita dalla casa editrice Scalino di Sofia.


Anton Špacapan Vončina natonel 1975 a Šempter pri Gorici in quella che era allora Jugoslavia, è illustratore, scultore, performer del riciclo e scenografo. Sue opere sono comparse su riviste, copertine, dischi, libri. Ha lavorato alla scenografia per innumerevoli cortometraggi e su film, tra i quali Zoran, il mio nipote scemo, Drevo, Babylon Sisters, Menocchio, L'uomo selvatico, L'uomo senza colpa, Fiume o morte! È, insieme al coautore del libro, tra i fondatori del festival internazionale Če povem 83.

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