Pedrag Finci
Il popolo del diluvio
Bottega Errante Edizioni
Breve nota di agenzia: «A Madrid è giunto un gruppo di un centinaio di profughi di Sarajevo, in maggioranza di origine sefardita».
Il popolo del diluvio è un racconto autobiografico e allo stesso tempo un saggio sullo sradicamento, un esilio imposto da una guerra incomprensibile come spesso sono le guerre, in un'Europa che si credeva immune, dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, da conflitti che coinvolgessero popoli e nazioni al proprio interno.
La guerra scoppiata agli inizi degli anni '90 nella ex Jugoslavia ha risvegliato dal torpore in cui era scivolata la parte occidentale del vecchio continente facendogli scoprire che il germe del nazionalismo e dell'odio etnico-religioso non era spento ma anzi germogliava a est fino a contaminare ampi spazi anche al di là delle sue frontiere orientali.
Il racconto di Pedrag Finci è la cronaca di un esilio privilegiato, come lui stesso ammette, essendo docente di estetica all'università, la fuga di una persona che pur scappando trova una sua collocazione professionale nel nuovo contesto in cui andrà a vivere ma che ugualmente soffre e subisce lo straniamento dell'abbandono di una terra d'origine che ne aveva plasmato l'essenza al pari dei suoi antenati ebrei sefarditi cinquecento anni prima.
Da esule è costretto a ripercorrere la strada che lo porta alla ricerca di una porta d'oro, simbolo della ciclicità di un fato che accompagna un popolo che dell'esilio ha fatto suo malgrado un modus vivendi. E lo fa attraverso la letteratura che ha accompagnato la sua vita, da Joyce dei Dubliners a Cuore di tenebra di Conrad, Dal Melville di Bartleby lo scrivano alla Metamorfosi di Kafka e ai grandi scrittori russi, fino a comporre una biblioteca degna di Borges, nella ricerca di un vissuto che lo accomuni ai vari esiliati dalla vita narrati in quelle pagine.
Il ritorno a guerra finita sarà poi altrettanto triste e straniante quanto la partenza, dove la ricerca di ciò che era stato si rivelerà impossibile, dati i cambiamenti che i luoghi martoriati avranno subito nel conflitto.
Rimarrà il rimpianto di un mondo ormai perduto e la volontà di ricostruire, nonostante tutto una nuova vita nel luogo che aveva saputo accoglierlo nel suo viaggio disperato.
Un ricominciare reinventando e reinventandosi nuovamente, al pari di quegli ebrei che a suo tempo, erano riusciti a ricostruire un tessuto stabile nei Balcani dopo aver lasciato una Spagna che li aveva rifiutati.
Per quanto tempo ancora i miei bosniaci vagheranno nell’inferno che li ha sorpresi? Quanto ci vorrà perché i miei concittadini possano tornare? Quanti di loro scoppieranno in pianto per una vita che non esiste più se non nei ricordi? E per quanto ancora persisterà la minaccia che il crudele cammino debba ripetersi? Ma non è forse stato scritto, tanto tempo fa: «Un giorno, mio caro Yamel, arriverai davanti a una porta d’oro...»?
Pedrag Finci (Sarajevo, 1946) è stato professore ordinario di Estetica alla facoltà di filosofia di Sarajevo fino al 1993, anno dell’inizio del suo esilio a Londra dove attualmente vive e lavora come scrittore. È ricercatore presso il London University College, membro del PEN club di Sarajevo e dell’Exiled Writers Ink (Londra). Pubblicato in tutto il mondo, questo è il suo primo lavoro completo tradotto in Italia.
In verità, a vent’anni faceva l’attore, ma poi gli studi universitari di filosofia ed estetica lo presero del tutto, grazie anche all’incontro con Mikel Dufrenne, all’università Paris X (Nanterre), e con Werner Marx, a Freiburg im Breisgau. Due grandi studiosi della fenomenologia, un punto di vista sulla realtà che non lascerà mai Finci, nemmeno quando dichiarerà di aver dovuto cambiare il genere e lo stile della scrittura. Leggiamo in un’intervista del 2012: «Ho anche cominciato a scrivere in modo diverso, la mia vita mi ha imposto i temi della guerra, della distruzione, del genocidio, della persecuzione, della terra straniera. Mi hanno abbandonato le illusioni e la mia vita è stata popolata da persuasioni amare e dai sogni in cui si intrecciano ricordi e speranze». Dopo il dottorato, Finci insegna all’università della sua Sarajevo: è giovane, pubblica libri sull’arte e l’esperienza dell’esistere, mantiene i contatti con i maestri e i colleghi. Ma la caduta del muro nel 1989 e l’immediata dissoluzione dei paesi comunisti portano solo male a quella che presto diventa la ex Jugoslavia e che dall’oggi al domani si scopre composta da etnie e religioni differenti, all’improvviso inconciliabili. «Ha sposato un musulmano» sente dire molti anni dopo, al ritorno dall’esilio. E Finci commenta, in questo libro, che “prima”, a proposito di un matrimonio, si sarebbe parlato del lavoro dello sposo, della discendenza familiare, forse della quantità e qualità dei beni. Nessuno avrebbe sottolineato la religione, si era abituati ai matrimoni misti. Adesso, invece, tutto è cambiato.
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