Sandro Penna

Un po' di febbre

Oscar Mondadori



Vi sono libri che prendono vita non si sa bene come. Non si sa quale circostanza, quale congiunzione di eventi li ha portati alla luce. Delle volte, premono sulle dita del loro autore, che cocciutamente, per anni magari, con ritrosia ha negato loro la pubblicazione. Il libro del quale vorrei lasciarvi qualche mia impressione ha avuto questa genesi. Il suo titolo è “Un po’ di febbre”, e l’autore è Sandro Penna. Furono i pochi amici di Penna, infatti, uno dei più importanti poeti del Novecento italiano, sebbene fu più che trascurato in vita dalla cultura italiana e sia caduto nell’oblio dopo la morte, avvenuta a Roma nel 1977, a pregarlo perché realizzasse questa opera che si presenta come una «silloge di racconti e fogli sparsi», tutti scritti tra il 1939 e il 1941, alcuni dei quali apparvero già su alcuni quotidiani e riviste dell’epoca, e per il resto inediti.

Che cosa ci si può trovare in queste carte di così interessante? Sandro Penna e la sua poetica, rispondo! Anzi, qualcosa di più: l’ordine con il quale sono state sistemate queste prose non è cronologico, bensì scelto a discrezione dell’autore per poter rendere più chiaro al lettore quella che può definirsi una vera e propria evoluzione nella forma della poetica di Penna, il sempre più perfetto affinamento del suo stile e, via via, la sempre più chiara maturità dei suoi temi. 

Con uno stile limpido, preciso e “magico”, addirittura onirico mi è sembrato per certi versi, Penna dà conto del suo incontro con la realtà, cittadina o rurale che sia, di Perugia (città natale), di Roma e di Milano, dei tram piacevoli, delle osterie ammiccanti, dei cinema fumosi e distraenti, ma sopra ogni cosa dà conto dell’“intensità degli incontri con le cose e con gli uomini”; e la descrizione del tempo meteorologico, che spesso accompagna i racconti, non è fine a sé stessa, è il modo attraverso il quale la Natura compartecipa dello stato d’animo del poeta. Già, lo stato d’animo del poeta! Fugaci sono i momenti di ristoro, di felicità; repentina, infatti, l’infelicità abborda il poeta; con estrema celerità, ciò che lo rende felice, svanisce, e lui si scopre ogni volta solo. Ama i ragazzi, il poeta, eppure non possono che essere avventure quelle che intrattiene con essi, e di fronte a quelle avventure, di fronte all’impossibilità – sembra – di una relazione stabile, esclama atrocemente: «A me solo è negata la vera felicità. Cosa sono più le mie avventure sempre con i diciassettenni, che mi parevano felici? E i più grandi, poi. Vizio soltanto. Per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore.»

E così le nuvole s’addensano, i lampi illuminano il cielo plumbeo, la pioggia scroscia tutto intorno accompagnando lo stato d’animo del poeta. Oppure lo fanno i luoghi deserti: “Non amo i ritrovi di «vita mondana». […] Non amore della solitudine soltanto, ché allora cercherei la campagna, o la montagna, o il deserto. Ma qualcosa che non so mi spinge, sempre, verso i luoghi della vita, della più fitta vita, proprio quando si ritrovano deserti. Amo le grandi città, e quando ci sono dentro finisco col dormire di giorno e girare di notte.”

Queste prose di Penna, mi danno una curiosa impressione: è come se costantemente per lui il tempo scorresse più lento, non così tanto da fermarsi, e avesse così l’opportunità di osservare quel suo caro mondo, che più veloce fugge, senza potervi mai fare pienamente e attivamente parte, se non per fugaci momenti: e da ciò mi pare emergere la sua infelicità e la sua solitudine.

Ma la vita ordinaria scorre, inesorabile. E il poeta vi è immerso, ma egli non è ordinario, è come malato, come se in lui vi fosse un’alterazione, come se avesse un po’ di febbre. La febbre non è uno stato fisiologico, essa è uno stato d’animo, uno stato “ricettivo”, direi, tale che consente al poeta di cogliere la poesia nella quotidianità. Con gli occhi dell’“ordinario”, eventi quali il percepire l’inadeguatezza di un fanciullo in un ambiente che non sente suo, passerebbero non-colti nell’ordinario fluire delle cose, ma con gli occhi del poeta, febbrili, alterati, ricettivi, quel fatto assume un grande rilievo. Insomma, Penna ci mostra come l’incontro del poeta col quotidiano può essere portatore di una concezione poetica del quotidiano stesso per via di qualche suo aspetto che risalta all’occhio del poeta, per quanto possa essere misero, quell’aspetto, agli occhi dell’uomo ordinario. Per cogliere ciò che di bello e poetico vi è nel nostro quotidiano, sembra dirci Sandro Penna, bisogna essere come il poeta, bisogna avere un po’ di febbre…

Il libro ci consente dunque di tratteggiare la persona l’artista l’uomo Sandro Penna, e, in quanto è una testimonianza, non penso possa essere giudicato sulla base della dicotomia “bello/brutto”, quanto piuttosto, al più, sulla base della dicotomia “interessante/non interessante”. Ebbene, per coloro che vogliono conoscere Sandro Penna meglio, per coloro che vogliono mettere a fuoco più esattamente l’artista, credo che, per loro, questa opera possa risultare interessante.


Recensione di Matteo Celeste.




Nato a Perugia nel 1906, Sandro Penna ha vissuto quasi sempre a Roma, tranne un breve periodo a Milano come commesso di libreria, svolgendo vari mestieri: ragioniere, traduttore, mercante d’arte. A Roma morì nel 1977.

Precocemente vocato alla poesia, che coltivò in maniera esclusiva (restano un'eccezione le prose narrative, peraltro prossime per toni e temi alla produzione in versi, raccolte in Un po' di febbre, 1973), fu conosciuto per merito di U. Saba, che favorì la pubblicazione del suo libro d'esordio: Poesie (1939). Come il poeta triestino, che è stato il proverbiale alfiere dell'antiermetismo, Penna manifesta il massimo attaccamento nei confronti della realtà quotidiana, non fa mistero del proprio approccio sentimentale e sensuale al mondo che lo circonda, si esprime in una maniera facilmente comprensibile. Qui finisce tuttavia il sabismo di P., la cui poesia, proprio per la mancanza di plausibili termini di riferimento, è stata interpretata come una sorta di naturale reviviscenza alessandrina, frutto insieme di un'arte sapientemente invisibile e di una pagana gioia di vivere l'eros omosessuale. Tanto lontano dalla complessa articolazione tematica della poesia di Saba, quanto estraneo ai rituali iniziatici della poesia ermetica, P. si chiude in uno spazio privilegiato per mettere in scena la ripetizione coatta di una ricerca d'amore condotta con letizia quasi francescana, e trasforma in ossessione formale l'infinita variazione intorno a quell'unico tema. Negata a qualsiasi svolgimento narrativo, la sua poesia coglie i risultati migliori quando si affida a un'ideale brevità epigrammatica o quando consegna a vere e proprie «ariette» melodrammatiche un anacronistico gusto per l'idillio e una sapienza erotica paradossalmente universale. Le singole raccolte di questo ininterrotto canzoniere (Appunti, 1950; Una strana gioia di vivere, 1956; Croce e delizia, 1958; Stranezze, 1976; fino alla post. Il viaggiatore insonne, 1977) sono via via confluite, con l'aggiunta di poesie inedite e giovanili, nelle successive edizioni complessive delle Poesie(1957; 1970 [col titolo Tutte le poesie]; 1973; e, post., 1989). Postumi sono anche i voll. Confuso sogno (1980) e Peccato di gola (1989). Nel 2017 è stato edito il volume Penna. Poesie, prose e diari, compiuta sintesi della sua traiettoria umana e artistica.


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