Francesca Sanvitale 


Madre e figlia 


Einaudi



Un giorno di primavera di diversi anni fa, in una pausa tra un corso universitario e un altro, mi sedetti su una panchina libera di un parco verdeggiante, che sotto il sole caldo e benefico giaceva placido e addormentato, della mia incantevole Torino. Ero andato lì per prendere un po’ di sole e per stare un po’ in mezzo alla natura, sebbene fossi in città; insomma, vi andai per rilassarmi. Del tutto imprevedibilmente, mi si avvicinò un’anziana signora che cortesemente mi chiese se potesse accomodarsi. Ovviamente, le dissi che non c’erano problemi, che avrebbe potuto sedersi, e così fece. In quel caldo pomeriggio, chissà mai perché – ancora me lo chiedo –, la signora mi chiese se avessi voluto ascoltare la storia della sua vita e incominciò a raccontarmela: di come, lei bambina, insieme alla sua famiglia, era fuggita durante la guerra in diverse città italiane; di come, da giovane donna, innamoratasi di un pugile conosciuto in Francia o in Svizzera – non ricordo bene –, decise di seguirlo là dove si trovava, ma l’ardente passione che li univa si scontrava con problemi di altra natura insormontabili da superare; di come, incinta, ritornò in Italia, a Torino, senza aiuto alcuno – si erano creati screzi con la famiglia rimasta – e qui, quasi per miracolo, era riuscita a farsi assumere, grazie alla tenacia che aveva dimostrato sostando per più giorni davanti alla sede del suo futuro lavoro, da un dottore che cercava una infermiera, lei che infermiera non era ma che apprendeva in fretta; di come, da anziana, era molto più felice e serena perché la figlia aveva un’ottima posizione lavorativa e riteneva, come credo senza dubbio, avesse vissuto la sua vita pienamente seguendo il cuore e le sue passioni. 

Quando ho iniziato a leggere “Madre e figlia” di Francesca Sanvitale, mi è tornato alla mente quell’episodio della mia vita che vi ho raccontato. Così, prendeva forma nella lettura una vera e propria “scenografia”: mi immaginavo di stare in una stanza non molto illuminata, magari con delle abat-jour accese qua e là, a creare un’atmosfera soffusa, seduto su una sedia comoda e davanti a me Francesca Sanvitale che, su una sedia a dondolo, mi chiedeva: “Vuoi che ti racconti una storia di vita di una madre e di una figlia?” E in questo modo il racconto incominciava e il tempo passava. 

Marianna e Sonia sono rispettivamente madre e figlia, legate da un amore fortissimo quale può avere una madre per una figlia e una figlia per una madre. Sono solo loro; il padre di Sonia compare e scompare nelle loro vite a intermittenza, come una fugace allucinazione; il motivo di ciò si scoprirà solo alla fine. Nel prosieguo del racconto leggeremo di Marianna che invecchia e di Sonia che via via diventa più matura; leggeremo delle loro vite, di come si sviluppa un rapporto tra madre e figlia. Non c’è idillio in questo racconto, non c’è la descrizione di un rapporto tra madre e figlia perfetto, anzi, c’è il racconto della loro vita con tutti gli alti e i bassi che occorrono nella vita di chiunque, compresa la loro. Ci sono segreti che non possono essere rivelati, che non possono essere confessati. C’è Marianna che dimostra una forza quasi primordiale, atavica, quella forza d’animo che, sì, riga i volti, acciacca il corpo, ma non lo spirito che pare essere di granito. C’è Sonia che, in un primo momento, mostra i dubbi di una ragazza relativamente alle situazioni che vive, situazioni le quali, in mancanza di un quadro completo di ciò che le capita, non possono non farle sollevare delle perplessità, i sospetti di parole taciute e, in un secondo momento, mettendo da parte questi dubbi, queste questioni, si trova ad accudire i suoi genitori oramai anziani. Ma i segreti quanto a lungo possono rimanere tali? 

La storia di Marianna e Sonia, di madre e figlia, viene raccontata dall’autrice cogliendone i dettagli – i sentimenti, gli stati emotivi delle protagoniste – e rendendo loro vive, reali; ma la lettura di "Madre e figlia" lascia il sospetto, suscitato indubbiamente dalle qualità stilistiche di Francesca Sanvitale, che quel coacervo di pensieri, emozioni, affetti, comportamenti di cui lei parla sono proprio quelli che invadono, in modo subitaneo, con le fattezze di ricordi, la mente di chi guardasse una fotografia che lo raffiguri in un tempo oramai distante, eppure vissuto, che riconoscesse in essa attimi della propria vita; e lo fa in modo così convincente che ti fa credere, l’autrice, Francesca Sanvitale, che effettivamente abbia vissuto quanto racconta… 

Questa è un’opera che, con uno stile elegantissimo e ricercato ma non pedante o troppo barocco, racconta la vita di due donne, una vita non facile. L’unica raccomandazione che mi sento di dare è di leggere questa storia o, più esattamente, di farsela raccontare un poco alla volta, a piccole dosi, perché la qualità della storia lo richiede. 

Alla fine probabilmente non riuscirete a non seguire il consiglio dell’autrice, ossia quello di «non pensare ad altro ancora per un po’», di rimanere concentrati ancora un po’ su quanto accaduto a Marianna e a Sonia, su quella che è stata la loro vita. 




Recensione di Matteo Celeste. 









Francesca Sanvitale nacque a Milano il 17 maggio del 1928 da genitori emiliani. Figlia illegittima di un ufficiale di carriera, Tommaso Zanelli, e di Maria Sanvitale, appartenente a una famiglia dell’alta nobiltà parmense, i Pallavicino, impoveritasi dopo la fine della prima guerra mondiale, ebbe un forte legame con la nonna materna, Beatrice Pallavicino. 

Visse a Milano fino ai dodici anni e nel 1941 si trasferì a Firenze con la madre Maria, trascorrendo le estati a Busseto nella villa dei Pallavicino. Ebbe un’infanzia difficile, costretta a nascondersi per paura di eventuali ritorsioni dovute alla sua condizione di figlia illegittima e per possibili ripercussioni sulla carriera del padre che, negli anni fiorentini, abitava a Bologna. Il suo primo amore, verso i sedici anni, fu per un musicista che prendeva lezioni di direzione d’orchestra dal maestro ucraino Igor Markevitch. A Firenze studiò con Giuseppe De Robertis, Eugenio Garin, Roberto Longhi e si interessò, oltre che di cinema, anche di pittura e architettura («un narratore è molto vicino a un architetto», cit. in Pecora, 2012, p. 106). Tra le sue appassionate letture vi furono Cesare Pavese, Alberto Moravia, Mario Soldati, Beppe Fenoglio, Elsa Morante e Natalia Ginzburg, gli scrittori russi, Robert Musil. Si laureò nel 1953 discutendo una tesi sulle Rime di Franco Sacchetti, sotto la guida di Giuseppe De Robertis e, subito dopo la laurea, progettò di andare a Roma, al Centro sperimentale di cinematografia, dove aveva spedito una sceneggiatura che era stata accettata, ma poi non si presentò e abbandonò l’idea. 

Conobbe e divenne amica in quegli anni di Luigi Baldacci, Carlo Cattaneo, Giorgio Luti e Giuseppe Lisi, figlio dello scrittore Nicola. Passò da un lavoro a un altro: compilò voci per il Larousse italiano e schede per il professore Giulio Giannelli, docente di latino e greco all’Università fiorentina. Iniziò, grazie a De Robertis, a lavorare all’ufficio stampa della Vallecchi, dove rimase per un anno, fino al fallimento della casa editrice. Collaborò, in questi anni, a numerosi giornali tra cui Il Gazzettino, Il Giornale del mattino, Il Raccoglitore, La Nazione, La Sicilia, Il Ponte, L’Espresso, Tuttestorie, Tempo illustrato, in cui pubblicò recensioni, articoli di costume, inchieste, reportage e le prime prove narrative. Alla fine degli anni Cinquanta, si trasferì a Milano, dove intensificò la sua collaborazione con i giornali: celebre la sua inchiesta sulla condizione della donna in Italia con interviste a protagoniste di varie professioni. Fu lettrice di manoscritti anche per Bompiani e Mondadori, e approfondì la conoscenza di scrittori come Musil, Albert Camus, Hermann Broch, Robert Walser, Thomas Mann, Hermann Hesse, Joseph Roth, Arthur Schnitzler. Tra il 1959 e il 1960, si trasferì a Roma – anche per la sollecitazione di Raffaele La Capria e della moglie Fiore che la ospitarono e l’aiutarono a trovare un impiego alla RAI – dove poté frequentare e inserirsi nell’ambiente culturale. Lavorò alla Rai come autrice di programmi culturali fino al 1987, ricoprendo anche ruoli di dirigenza e, per tre anni, curò la rubrica culturale Settimo giorno. 

Realizzò alcune tra le prime serie di originali televisivi degli anni Sessanta, tra cui I racconti dell’Italia di ieri nel 1961 (tra gli scrittori scelti Arrigo Boito, Matilde Serao, Giovanni Verga, Emilio De Marchi, Edmondo De Amicis, Federico De Roberto e Caterina Percoto) e, nel 1963, I grandi processi della storia, la riduzione televisiva del testo teatrale L’istruttoria di Peter Weiss, le rubriche culturali Persone (1970), Settimo giorno (1974-76), le Interviste impossibili, lo sceneggiato a puntate ispirato al romanzo Tre operai di Carlo Bernari, Uova fatali di Michail Bulgakov e Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani). 

Continuò a collaborare con i quotidiani per alcuni anni dopo l’arrivo a Roma – La Nazione, Il Messaggero, l’Unità –, fu nella direzione della rivista letteraria Nuovi Argomenti fino al 1993 (insieme con Furio Colombo, La Capria ed Enzo Siciliano) e nel consiglio di redazione di MicroMega. Si dedicò, inoltre, alla gestione e alle attività culturali legate all’Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini e al Fondo Alberto Moravia. 

Negli uffici della RAI conobbe l’uomo che divenne poi suo marito, Sergio Silva, e da cui ebbe nel 1965 il figlio Enrico. Quando, promosso vicedirettore, il marito fu costretto a trasferirsi a Milano, lei prese a dividersi tra le due città ma, alla fine degli anni Sessanta, la famiglia poté far ritorno a Roma per risiedervi stabilmente, dapprima sulla Cassia vecchia, poi sempre sulla Cassia e, infine, nel quartiere Prati, in prossimità di viale Mazzini. 

Esordì con Il cuore borghese (Firenze 1972), di cui un capitolo era stato pubblicato in Nuovi Argomenti, che si impose come esempio di romanzo-saggio dalla forte componente mitteleuropea e con fitti rimandi a Musil e Mann. Elaborato dal 1962 al 1969, e vero e proprio Bildungsroman, il cui implicito protagonista è lo scrittore stesso (libro di «scienza della vita qual è stata nelle sue grandi espressioni mitiche»: cfr. L. Baldacci, Introduzione a F. Sanvitale, Il cuore borghese, Milano 1986, p. 15), il romanzo ebbe una complessa vicenda editoriale. Sanvitale rifiutò di pubblicarlo in forma ridotta per Mondadori e l’opera fu quindi pubblicata dalla Vallecchi, per intervento di Geno Pampaloni, venendo insignito del premio Viareggio opera prima. 

Agli anni Ottanta risalgono gli interessi per la psicanalisi, con le letture di Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Jean Piaget. Dopo la perdita della madre nel 1976, pubblicò Madre e figlia (Torino 1980), romanzo composto tra il 1977 e il 1979, che riscosse un notevole successo di pubblico (vincitore dei premi Fregene e Pozzale) e che, su una forte componente autobiografica, attraversa la storia del costume italiano tra fascismo e dopoguerra «in un contrappunto senza fine, tra realismo e metafisica» (cfr. G. Pampaloni, Introduzione a F. Sanvitale, Madre e figlia, Milano 1986, p. VI). 

Con L’uomo del parco (Milano 1984; Antonio Porta è autore dell’introduzione nell’edizione del 1987), romanzo molto legato ai precedenti, Sanvitale si confrontò con i temi della malattia, della nevrosi e della dissociazione dell’io. Si tratta di un’indagine dai risvolti psicologici e psicoanalitici, in cui l’analisi si focalizza su un’unica figura femminile, la protagonista Giulia. La vicenda individuale è in stretto rapporto con la sfera collettiva e storica, tramite costanti riferimenti a tragici eventi reali: la strage di via Fani, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. 

Seguì La realtà è un dono (Milano 1987), la sua prima raccolta di racconti vincitrice del premio Lerici. Nove dei dieci racconti sono incentrati sul rapporto di coppia e la sessualità, poi ripresi nella silloge Separazioni (Torino 1997), costituita da quattordici racconti che ruotano intorno al nesso separazione-unione. Nel 1988, per l’editore romano Gremese, uscì Mettendo a fuoco: pagine di letterature e realtà, una raccolta di sedici scritti di carattere letterario, storico, sociopolitico, quasi tutti già apparsi in quotidiani o su Nuovi Argomenti: due sono dedicati a Pasolini, uno a Enrico Berlinguer, un altro a Maurice Blanchot. Nel 1989 si dedicò alla versione italiana del Diavolo in corpo di Raymond Radiguet, per la collana di Einaudi Scrittori tradotti da scrittori. Nel 1991 vinse il premio Martina Franca con il romanzo Verso Paola, pubblicato sempre per Einaudi, che ottenne anche i premi Lago Maggiore e Rieti. L’opera, che narra la storia di un viaggio da Bolzano a Paola, risponde all’esigenza di una «nuova oggettività», soffermandosi sul tema della crisi dello scrittore contemporaneo. Nel romanzo storico Il figlio dell’Impero (Torino 1993), risultato di una ricerca durata quattro anni, si narra la vita del figlio di Napoleone, che a soli tre anni, il 29 marzo 1814, fu costretto a lasciare per sempre Parigi: attraverso una vicenda individuale di sradicamento e cambio di identità, prende forma un affresco storico di Francia e Austria tra il 1814 e il 1832, data di morte per tisi del giovane Napoleone. Alla base dell’opera è ancora una volta un vincolo filiale: il legame tra Maria Luigia d’Austria, divenuta imperatrice e riparata, dopo le pesanti sconfitte francesi, presso il padre Francesco I d’Asburgo, e il figlio, Napoleone junior, che alla corte viennese cambierà nome e titolo. 

In Tre favole dell’ansia e dell’ombra (Genova 1994), raccolta di testi scritti all’inizio del 1978, si ritorna ai temi della malattia, del ritrovamento di sé, della sessualità, mentre l’ampia antologia Le scrittrici dell’Ottocento. Da Eleonora De Fonseca Pimentel a Matilde Serao (Roma 1995, ma 1997) testimonia l’attenzione di Sanvitale alla questione della scrittura femminile. In Camera ottica (Torino 1999), ai saggi sugli autori più amati – Simone de Beauvoir, Katherine Mansfield, Natalia Ginzburg, Lalla Romano e Gianna Manzini, ma anche Bruce Chatwin, Pasolini, Neera, Moravia, e poi Stendhal, Victor Hugo, Lev Tolstoj e due classici come Tasso e Michelangelo – si alternano appunti di viaggio, testimonianze e interventi sull’attività politica e culturale. L’acutezza di sguardo, l’arte del vedere, come il titolo indica, rappresentano ‘la chiave’ per leggere la realtà letteraria e culturale. 

Dopo essere stata nominata dal presidente della Repubblica grand’ufficiale della Repubblica italiana per meriti culturali il 1° giugno del 2001, pubblicò L’ultima casa prima del bosco (Torino 2003), romanzo strutturato sulla ricerca archivistica in un grande condominio romano, da parte di Giacomo Impronta, un ex terrorista. Nel 2007 fu candidata alle primarie per eleggere l’Assemblea costituente del nascente Partito democratico (PD). Nel 2008 fu insignita del premio Chiara e del premio Viareggio per la narrativa, con L’inizio è in autunno (Torino 2008). 

Nel romanzo, ispirato alle polemiche sorte in occasione degli ultimi restauri degli affreschi michelangioleschi nella Cappella Sistina e ulteriore tappa nella sperimentazione delle potenzialità della forma-romanzo, si narra il rapporto tra Michele, uno psichiatra in crisi, e Hiroshi, un restauratore cinese nonché, tramite i due personaggi, l’interazione tra culture diverse. 

Le opere di Sanvitale sono state tradotte in Francia, Germania, America, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia. 

Morì a Roma, dopo lunga malattia, il 9 febbraio 2011. (Fonte treccani.it) 

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