AA. VV.
Il loro grido è la mia voce
Poesie da Gaza
Fazi Editore
Recensione di Roberto Maestri.
Sono Haidar al-Ghazali, ho vent’anni. Non so come risorgere dalle ceneri. Un essere umano normale, un palestinese normale, un abitante di Gaza normale, che vive un genocidio da un anno. “Essere umano” perché è una necessità di fronte al ferro dei cannoni e alle schegge. “Palestinese” perché sono l’esistenza che porta la storia del dolore, con gli occhi puntati sui campi e le pianure. “Di Gaza” perché ti farò una domanda imbarazzante: come reagisce il mondo? “Normale” perché è un privilegio in un mondo capovolto.
Si può fare poesia a Gaza? È la domanda che si pongono i curatori Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, e Leonardo Tosti, ma è la domanda che ci poniamo anche noi che abbiamo questo volume fra le mani. E la risposta è sì, non solo si può ma si deve. Perché la poesia è l’arma che può abbattere i muri del silenzio, volare oltre i droni che vorrebbero metterla a tacere, scardinare la spirale di odio e violenza che vorrebbe far scomparire un popolo fiero della sua identità e della sua voce.
Dalle note di copertina:
La poesia come atto di resistenza. La forza delle parole come tentativo di salvezza. È questo il senso più profondo delle trentadue poesie di autori palestinesi raccolte in questo volume, in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023, nella tragedia della guerra in Palestina, in condizioni di estrema precarietà: poco prima di essere uccisi dai bombardamenti, come ultima preghiera o testamento poetico (Abu Nada, Alareer), mentre si è costretti ad abbandonare la propria casa per fuggire (al-Ghazali), oppure da una tenda, in un campo profughi dove si muore di freddo e di bombe (Elqedra). Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, «scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata».
E ancora:
Fare poesia da un campo profughi, da un luogo di sofferenza e abbandono, significa abitare nel cuore di un bambino dilaniato da una bomba e lì restare: senza né acqua né luce, imputati - come i martiri di Palestina, soffocati nella calca per un pezzo di pane. In ogni pagina letta, accanto a ogni parola pronunciata, dovremmo ricordarci che a Gaza, in questo momento, vengono uccisi altri bambini.
Voglio sognareFosse questaLa mia unica colpaper essere ucciso.Voglio nutrireI passeri delle stradeE non ho altro che la mia carneSul marciapiede.Haidar al-Ghazali, Gaza 27/04/2024.
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